Solo qualche giorno fa ci eravamo occupati del recentissimo rebranding di Chiara Ferragni Brand, passato da simbolo dell’empowerement femminile a valvola di sfogo per “sottoni” in amore. Con tutte le perplessità del caso. La parabola di Fenice, la società che gestisce parte del business di Chiara Ferragni, è però ormai segnata dal peso del cosiddetto Pandoro-gate. Alla fine del 2023, prima che lo scandalo travolgesse la reputazione e i conti dell’impero Ferragni, l’azienda contava 27 dipendenti: un quadro, 21 impiegati e 5 figure con contratti di diversa natura.
Solo dodici mesi più tardi, i numeri sono radicalmente cambiati. Nel bilancio chiuso al 31 dicembre 2024, i lavoratori erano già scesi a 13. E oggi, secondo il fascicolo depositato in Camera di Commercio e riportato da Open, la forza lavoro si è ulteriormente ridotta: restano soltanto sei dipendenti.
In altre parole, tre su quattro sono stati lasciati a casa. Una riduzione del 78% dell’organico che pesa come un macigno sulla storia della società. I tagli, spiega l’amministratore unico Claudio Calabi, si sono resi inevitabili dopo il crollo del fatturato e sono stati in alcuni casi accompagnati da accordi transattivi. Ma anche questo drastico ridimensionamento non sembra essere sufficiente a riportare i conti in carreggiata.
Ricavi crollati e liquidità ai minimi
I numeri quelli sono eh: nel giro di un anno i ricavi di Fenice sono passati da 12,55 milioni a soli 1,75 milioni di euro. Un vero e proprio crollo verticale, che ha trascinato con sé anche i conti finali: il bilancio 2024 si è chiuso con un rosso di 3,37 milioni di euro.
Non solo: le disponibilità liquide, che a fine 2023 ammontavano a 1,9 milioni, oggi si sono ridotte ad appena 3.929 euro. Whaaat??? Una cifra che basterebbe a malapena per coprire poche settimane di spese operative. Per evitare il default, Calabi ha imposto a Ferragni una pesante iniezione di capitale da 6,43 milioni di euro, necessaria per ricostituire il patrimonio netto e scongiurare il rischio di portare i libri in tribunale.
Nel bilancio compaiono inoltre accantonamenti importanti: quasi 5 milioni di euro destinati a fronteggiare rischi e oneri. Tra questi:
- 1,78 milioni per contenziosi sorti nel 2024,
- 210 mila euro per buonuscite del personale,
- 2,45 milioni per potenziali contenziosi con clienti,
- 320 mila per possibili perdite da società controllate,
- 160 mila per la risoluzione anticipata del contratto d’affitto della sede di via Turati.
Voci che restituiscono l’immagine di una società assediata da problemi legali e commerciali, oltre che finanziari.
Il futuro secondo Calabi: tra speranze e incertezze
E il 2025? Nella sua relazione sulla gestione, Calabi certifica che esistono ancora i presupposti per la sopravvivenza della società, ma non si sbilancia sull’ottimismo. L’amministratore ha predisposto un piano che prevede il taglio delle spese del 50% rispetto al 2024 e il lancio di nuove linee di prodotto, anche tramite e-commerce.
L’obiettivo è raggiungere il break-even a livello di margine operativo lordo. Tuttavia, lo stesso Calabi sottolinea come il destino dell’azienda dipenda in larga parte dall’esito delle vicende giudiziarie ancora aperte. In altre parole, senza un chiarimento definitivo sul fronte legale, la ripresa resta incerta.
L’amministratore “volontario” che ora costa 220 mila euro
Un altro capitolo riguarda proprio la figura di Claudio Calabi. Quando, a fine ottobre 2024, accettò l’incarico di amministratore unico, dichiarò di non voler percepire alcun compenso. Una sorta di gesto “volontario” per non gravare ulteriormente sui conti già compromessi della società.
Pochi mesi dopo, però, la situazione è cambiata. Nel verbale di assemblea depositato emerge la proposta – avanzata dallo stesso Calabi e sostenuta da Chiara Ferragni – di riconoscergli un emolumento annuo lordo di 220 mila euro, retroattivo a partire da gennaio 2025. La decisione è stata approvata, nonostante l’opposizione del socio di minoranza Pasquale Morgese, che attraverso due srl detiene ancora lo 0,2% della società.
Oggi Ferragni detiene il 99,8% di Fenice, ma la sua creatura imprenditoriale sembra lontana dal risorgere come l’uccello mitologico di cui porta il nome. L’impatto del Pandoro-gate, i ricavi evaporati, i licenziamenti e i costi legali hanno ridotto drasticamente la solidità dell’azienda.
Il 2025 si annuncia come un anno di transizione, forse di sopravvivenza. Molto dipenderà dall’efficacia delle nuove strategie commerciali (vedi collab con Rivoluzione Romantica) e, soprattutto, dall’esito dei processi ancora pendenti. Per ora, più che una rinascita, quella di Fenice appare come una faticosa lotta per restare in piedi.