
Tutti green a parole, ma quando si tratta di mollare l’osso e la bistecca... panico paura. La carnazza piace, e pure tanto, con buona pace di animalisti, vegani e vegetariani che a gennaio si sono fatti il loro Veganuary per sentirsi forti e puri. Peccato che a febbraio siano già stati asfaltati dalla realtà: i colossi Nestlé e Unilever stanno mollando i loro marchi veggy, Garden Gourmet e The Vegetarian Butcher.
Morale della favola? Verde sì, ma più di rabbia che di convinzione.
Dopo aver tirato una riga sotto i conti, le multinazionali si sono accorte che il business del vegetale non sta ingrassando come speravano. E quando i numeri non tornano, si cambia rotta. Secondo Dissapore, che cita Reuters, Unilever sta cercando di sbolognare il suo marchio vegetariano dopo appena 6-7 anni di gestione. Il motivo? "Genera solo"—e qui le virgolette sono nostre—50 milioni di euro di vendite annuali ed è comunque in perdita. Ma non è che vendere il pacchetto sia tanto più semplice che far funzionare il business: trovare un acquirente con voglia di investire nel settore pare difficile quanto convincere un milanese a rinunciare all’aperitivo.
Stessa musica per Nestlé, il cui amministratore delegato ha dovuto ammettere, con buona dose di rassegnazione, che il mercato non è ancora così green come avevano sperato. E il problema non è solo loro. Anche i pionieri della carne-non-carne, Beyond Meat e Impossible Foods, hanno visto scemare l'entusiasmo iniziale, con azioni che sono precipitate peggio di un falco su un filetto di manzo.
Il paradosso? La carne veggy costa più di quella vera. E se già ci scoccia pagare 2 euro in più per il latte d’avena al bar, figurarsi sganciare il doppio per un burger ai piselli. O ai ceci. O di soia. O quel che l'è. Non proprio un bene di lusso, ma neanche roba per tutti: più che una prateria, il mercato plant-based pare un orticello, e pure spelacchiato. Purtroppo eh.
E come se non bastasse, ci si mette pure la politica. Il nuovo segretario della salute americano, Robert Kennedy Jr, ha pensato bene di bollarli come prodotti “ultra processati”. Non proprio una marchetta pubblicitaria.
Autrice: Daniela Faggion
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