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Presente Burgez? Bè, l’hamburger più scorretto d’Italia è fallito ed è finito all’asta

Dopo il fallimento, Burgez di Simone Ciaruffoli è finita all'asta ed è stata venduta per 1,3 milioni di euro. Che succederà adesso?
3 Settembre 2025

Dieci anni fa Burgez aveva un obiettivo chiaro: diventare la catena di hamburger più “cattiva” del Paese. E, almeno sul piano della comunicazione, ci era riuscita alla grande. Spot irriverenti, slogan anti-vegani, magliette provocatorie, finti bigliettini di lavoratori disperati infilati nei panini. Nessuno era al sicuro: genitori, bambini, femministe, clienti “easy going”. Tutti sono stati bersaglio di un marketing che puntava a far discutere. Dietro le quinte c’era Simone Ciaruffoli – autore televisivo (ha firmato anche Camera Café), regista, sceneggiatore, docente e soprattutto fondatore di Burgez – insieme all’agenzia Upper Beast Side. Una strategia sopra le righe che, nel bene o nel male, ha fatto parlare di sé. Ma che non è bastata a salvare i conti. Burgez è infatti finito ufficialmente sotto il martello dell’asta.

Come Burgez è finito all’asta

La liquidazione di Burgez era stata annunciata a metà giugno. A fine agosto è arrivato il passaggio decisivo: l’asta telematica organizzata sulla piattaforma Astebook. La base era fissata a 940mila euro. Da lì è partita una battaglia a colpi di rilanci – ben 51 in totale – fino all’offerta finale accettata di 1,3 milioni di euro. Chi si è portato a casa Burgez? Who knows. L’acquirente resta misterioso, ma con quell’assegno si è aggiudicato non solo il marchio, ma anche gli 11 locali ancora attivi (7 a Milano, più Roma, Torino, Verona e Bologna), gli uffici di viale Vittorio Veneto a Milano, le attrezzature, gli automezzi e i contratti esistenti. Nel pacchetto c’erano pure le quote di Burgez Italia, valutate 10mila euro. In altre parole, un “menu completo” che non comprende solo hamburger e patatine, ma tutta la struttura operativa.

E i lavoratori? Da quanto trapela, i dipendenti dovrebbero essere riassorbiti dalla nuova proprietà. La parola d’ordine è prudenza: non sono ancora chiare le modalità né le condizioni, ma la prospettiva è che non vengano lasciati a casa. Il timore, comprensibile, resta quello di chi ha visto l’azienda imboccare la parabola discendente negli ultimi anni, fino all’apertura della liquidazione giudiziale decisa dal Tribunale fallimentare, con la nomina dell’avvocata Francesca Monica Cocco come curatrice. Una procedura che, di fatto, ha sostituito il fallimento vero e proprio, puntando a saldare i creditori attraverso la vendita in blocco.

Campagne e polemiche

Al di là dei bilanci, Burgez passerà alla storia del marketing italiano come la catena che ha scelto la scorrettezza come bandiera. Impossibile dimenticare la campagna del 2019 con le magliette dedicate alla Festa della Donna, stampate con le istruzioni per il “vero doggy style”. Delicatissimo, cit. Oppure il colpo di teatro del 2021: i finti bigliettini infilati nelle confezioni degli hamburger, firmati da una presunta cassiera che scriveva disperata: «Aiutami, sono una cassiera di Burgez, non mi stanno pagando da tre mesi. Fallo sapere a tutti». Scandali assicurati, polemiche a pioggia, ma anche visibilità enorme. La logica era chiara: purché se ne parli. E in effetti, per anni, se n’è parlato eccome.

La T-shirt di Burgez per la festa della donna, con stampate con le istruzioni per il “vero doggy style

Dopo il boom iniziale, però, la macchina Burgez ha iniziato a scricchiolare. Troppa comunicazione d’impatto, pochi risultati concreti a livello economico. La liquidazione è stata solo l’ultimo atto di un declino che appariva già scritto. Ciaruffoli, in passato, aveva descritto lo stile Burgez come “aggressivo e identitario”. Una definizione perfetta per un progetto che ha saputo cavalcare l’onda del guerrilla marketing, ma che non ha trovato lo stesso successo nella gestione finanziaria.

Milano, piazza difficile per le catene food

Il caso Burgez si inserisce in un contesto più ampio: Milano, pur essendo una piazza enorme e redditizia, è anche spietata con chi non regge i ritmi. Non è la prima volta che una catena food alza bandiera bianca. Basta citare la Vapore Italiano srl, fondata da Vanni Bombonato, creatore dei food stores That’s Vapore, anch’essa costretta alla chiusura. O il gruppo Sun Tzu di Edoardo Maggiori, con brand come Filetteria Italiana, Magnaki ed El Tacomaki, anch’essi finiti in liquidazione. In città il giro è ricco, ma la concorrenza è feroce. Chi non ha spalle solide, prima o poi, rischia di schiantarsi.

Il futuro di Burgez adesso resta un “booo”. La nuova proprietà avrà la forza – e soprattutto il coraggio – di mantenere lo stile “politicamente scorretto” che ha reso il marchio famoso o si procederà con un rebranding? Staremo a vedere.

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