Se a Milano dici palestra, in genere, dici Virgin Active. È considerata l’unico spazio fitness concepibile da tutti coloro che lavorano per non meno di 50k l’anno in edifici con non meno di 10 piani. Chi però non è interessato a comparire nelle Instagram stories di Fedez, sa che tra le vie meno trafficate del centro si annida una pletora di palestre in grado di regalare scorci di un’umanità diversa, che nulla ha a che vedere con ex tronisti e future veline. Un’umanità sfuggente, dimessa, alternativa, low profile. In una parola: triste.
È esattamente ciò che ho trovato iscrivendomi in una palestra tanto centrale quanto decadente. Decadente nel senso che certi attrezzi cadono proprio a pezzi, ma del resto, per l’allenamento intensivo che faccio, non è neanche così importante che funzionino.
La stanza dei tapis roulant presenta la curiosa caratteristica che su una quindicina di apparecchi ne funzionino 2. Sempre. Alcuni hanno un perenne bisogno di reset, altri presentano un problema di tipo C, che ti chiedi se sia una forma di epatite o l’ultimo avvertimento prima che salti in aria, altri ancora hanno il tappetino sfondato e più che correre ti sembra di camminare su una distesa di amido di mais. C’è un televisore, che quando è acceso prende solo e unicamente RTL senza possibilità di cambiare canale, ergo o ti subisci Alessandra Amoroso, Ed Sheeran e la promozione del tour di Gigi D’Alessio a rotazione, o sei costretto a correre con l’iPhone in mano e dopo 15 minuti ti ritrovi a ringraziare che sia subacqueo.
Un’altra caratteristica curiosa è la più bassa percentuale di iscritte femminili dai tempi del suffragio censitario. Escludendo le partecipanti ai corsi di zumba e pilates, rimaniamo infatti io, Katiusha, Agatha e Mirta. Nessuna delle tre ovviamente si chiama così, ma non conoscendo i loro nomi – nessuno parla né socializza in questa palestra – le ho dovute per forza di cose ribattezzare. Katiusha è il tipico esemplare di badante ucraina di ricca vedova milanese in pausa pranzo. Capello piastrato biondo platino, extension valide anche come elastici per fare le trazioni, leggins così aderenti che le ho diagnosticato una leggera infiammazione intestinale e un paio di gravidanze extrauterine, top giallo fluo che catarifrange l’elegante e per nulla demodé brillantino sul dente, unghie finte dipinte a dita alterne di blu elettrico e rosa peppa pig. Il tutto coronato da un fondotinta arancio ceramica che conferisce quel grazioso effetto Silvio Berlusconi durante il discorso alla nazione. È leggermente sovrappeso, da sempre: sarà che passa tutta l’ora a stazionare sullo step sculettando morbidamente con i gomiti appoggiati al manubrio per poter messaggiare meglio. Ah, non si fa mai la doccia. Credo tema di liquefarsi passando dallo stato solido a quello di fango d’alga Guam.
Seconda portatrice di cromosoma XX è una che pensavo portasse quello XY. Agatha – in omaggio alla signorina Trinciabue di Matilda sei mitica – è una scarpiera di un metro e ottanta, perennemente abbronzata (io sono tutt’altro che pallida ma lei sfiora la richiesta di ius palestrae), sembra più uno dei bambolotti di Esplorando il corpo umano, dato che sotto la mise in tessuto tecnico si riconosce distintamente ogni singolo fascio muscolare del suo corpo e probabilmente anche di quello delle vittime che ha cannibalizzato. Non corre mai al di sotto dei 15 km/h e mai per meno di 45 minuti, esegue un numero di addominali e flessioni a un ritmo tale che mi aspetto di veder passare il Sergente Hartman a dirle «rallenta un attimo tesoro», alla panca solleva l’equivalente di Antonino Cannavacciuolo e credo lo superi in potenza quando prende a pugni il sacco da boxe, al punto che un paio di volte giuro di averlo sentito rispondere “sì chef”. Nemmeno lei si fa la doccia: essendo rivestita in poliuretano è ignifuga e con tutta probabilità anche idrorepellente.
Mirta, invece, è la tipica segretaria di studio legale che ha da un po’ passato i 40 e che, oltre ai prevedibili 2 etti di silicone, porta sul viso anche la tipica frustrazione di colei alla quale il capo promette da anni di lasciare la moglie. Ha negli occhi lo sguardo spento di chi ha smesso di fare shopping per se stessa in favore di graziosi cappottini per i quattro gatti soriani che ogni sera la amano per ciò che è. Solleva i pesini fucsia da 1,5kg con la mestizia di chi sa che sono l’unica cosa che impugna da tempo, non si avvicina agli altri attrezzi perché sa che le basta passeggiare con la verve di un dissennatore per smaltire la cena solitaria a base di quinoa della sera prima. Lei si fa la doccia, ma solo per ricordarsi di avere un corpo.
La fauna maschile, del resto, non è meglio. I due esemplari maggiormente degni di nota sono Ivano e Sergio. Ivano, strappato da Viaggi di nozze di Carlo Verdone, è un soggetto sui 30 anni, troppo tamarro persino per uomini e donne, a cui però coraggiosamente non smette di ambire, in nome della scritta tatuata sul petto FOLLO IOR DRIMS. E infatti spinge. Spinge parecchio, al punto che spesso sembra stia spingendo un autorimorchio rimasto senza benzina in autostrada. È il tipico che a ogni trazione, flessione, pressione e movimento muscolare emette un barrito agonizzante in grado di commuovere anche i bracconieri di avorio in diretta dal Kenya. Porta con sé una bottiglietta d’acqua che anziché bere si rovescia a intervalli regolari sulla canotta I LOVE IBIZA lanciandoti sguardi di fuoco che neanche David Gandy quando si erge sul gommone in mezzo ai faraglioni. Pensi ci stia provando con te e ti sale anche un attimo il panico perché non sai come dirgli che i congiuntivi per te sono tutto, ma poi ti ricordi dell’enorme specchio alle tue spalle che, seppur non nel senso in cui dovrebbe, lo sta facendo riflettere.
L’incontro con Sergio, alter ego di Marchionne, può rivelarsi anche più imbarazzante. Tu sei lì che predisponi la panca per il tuo ciclo di 3 addominali e mezzo mentre lui, poco distante, tiene un ritmo forsennato sulla palla enorme di gomma che tu hai sempre pensato servisse per riposarsi rimbalzandovi dolcemente. Ebbene, inizi il tuo esercizio quando vieni interrotta: «sì, ah, certamente, uh, stai facendo benissimo, oh, grande, ffff, vai così, eeeeh, feeega, aaaah». Non essendo presente nessun altro presumi che o si tratti di un inspiegabile amplesso oppure che ce l’abbia con te, al che ti giri a guardarlo. Una volta escluso il primo caso e notato che in realtà non ti caga di striscio, deduci siano momenti automotivazionali e scegli di lasciarlo nella sua raggiante intimità. Se non che, poco dopo, riattacca: «chiaramente, aah, guarda, puntare sul dollaro, ooh, in questa particolare contingenza economica, eeeh, sì sì, vai, toop, aaah, compra quindicimila e fra tre mesi, ffff, me li rivendi, ci portiamo a casa l’utile da cambio, uuuuh, e vediamo se staccano la cedolaaah, aaaah». Ok, sta per avere un ictus, pensi. Ti giri a guardarlo meglio. Noti degli auricolari. Noti che tiene fra i denti il cavetto in modo da avere il microfono accanto alla bocca. È in conference call. Con il suo broker. In palestra. Mentre fa gli addominali. Sulla palla. La palla di gomma.
Te ne vai, riflettendo su come certi fenotipi a Milano siano tragicamente inevitabili. Ed entri in doccia, promettendo a te stessa che la prossima palestra la cerchi sull’altopiano delle Murge all’interno di un trullo abbandonato. Tanto l’acqua calda non c’è neanche qui.
Articolo scritto da Federica Colli Vignarelli
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