L’estate 2018 non sarà ricordata solo per l’esclusione dell’Italia dai Mondiali, le temperature meteo simili allo Yorkshire e il matrimonio dei Ferragnez, ma anche per un trend che rimbomba come un mantra sulle bocche degli esperti di tendenze: no, non stiamo parlando di droghe, ma cibo – che poi, per me, sono quasi la stessa cosa -, e in particolare di Pokè Bowl.
Premessa: i Pokemon non centrano un cazzo. Ve lo dico subito perché, cresciuti come me a succhi di frutta dell’Esselunga, Ringo e Pokemon su Italia1, la prima cosa che viene in mente è quella. Potete invece rinfilare il Game Boy in cantina, là dove staziona da anni, e lucidare le forchette.
Dopo settimane a sentir parlare di ‘ste benedette Pokè, ho fatto l’unica cosa che un vero giornalista wannabe come me avrebbe dovuto fare: ho inforcato casco e motorino e sono andato a parlare con qualcuno che mi facesse da Cicerone spiegandomi un po’ la questione. Destinazione: Stefania Giotta, una dei soci fondatori di Pokeia (instagram: @pokeiamilano), ristorante di pokè bowls che ha da poco aperto in Via Magolfa, zona Navigli.
Tutti bravi a fare i sofisticati, ma io, appena entrato da Pokeia, da vero basic, noto subito le altalene. Per fortuna, nel giro di un urlo soffocato, mi ricordo che sono qui con un altro obiettivo, diventare un vero foodie, quindi mantengo la calma, torno lucido, e mi riassesto in modalità Oriana Fallaci della forchetta salutando Stefania. Quanto è vera la Madonnina sul Duomo io mangerò sulle altalene.
Stefania parte a spiegarmi un po’ il circo, e per prima cosa, capisco che pokè lo dicono i Giargiana. La pronuncia corretta sarebbe infatti poh-kay, che in lingua hawaiana, lì dove nasce il piatto, significa Tagliato a tocchi. L’ingrediente principale, manco a dirlo, è il pesce crudo, senza lische (può essere salmone, tonno o whatever), servito in una ciotola insieme ad altri ingredienti come frutta tropicale, verdure, alghe e crunch vari, il tutto su base di riso bianco, integrale o nero. Ovviamente, ci ha pensato la costa pacifica degli Stati Uniti prima, e quella atlantica poi (stiamo parlando di New York se non lo aveste capito), a lanciare la moda in giro per il mondo.
Come prevedibile, dalla base, sono poi partite declinazioni e suggestioni che differenziano un ristorante pokè dall’altro. Qui da Pokeia, mi racconta Stefania, c’è grande attenzione verso gli ingredienti. Il mais non è semplice mais, ma pannocchiette baby, così come il cipollotto, per esempio, è marinato ad hoc per essere più dolce.
Come nella migliore tradizione pokè, i piatti si possono assemblare scegliendo varie combinazioni, oppure ci si può affidare alle bowls consigliate e pensate da Vincenzo Mignuolo, chef di Iter che non solo ha creato i piatti, ma si è occupato di tutte le salse che li arricchiscono.
Tutto molto interessante, ma è anche arrivato il momento di provare.
Come insegnano le mamme, prima di mangiare, meglio darsi una lavata alle mani, quindi prendo la via per il bagno e SBAM: io folgorato sulla via del cesso come un qualsiasi San Paolo sulla via di Damasco.
Entri nel bagno di Pokeia e ti chiedi se sia uscito da una fantasia proibita di Valeria Marini: luci al neon rosa e una voce da lontano che ti urla Instagram opportunity, Instagram opportunity. Tiro fuori il telefono assuefatto come un automa (mi avranno drogato?) e mi sparo una mitragliata di selfie allo specchio del bagno che neanche le peggiori bimbeminkia di Netlog nel 2006. Forse è questo il paradiso degli influencer di cui ho sentito parlare. Valuto un possibile cambio di residenza ed esco un po’ rincoglionito dal tunnel.
Stefania mi guarda, io la guardo, e c’è già il piatto pronto sul tavolo. Sorrido come un ebete ma torno presto in me: ricordiamoci che sono pur sempre un giornalista. Mentre cerco di non pensare a quale scatto pubblicare su Instagram, una nuova esperienza mistica: il poke tacos con guacamole di mango, salsa cheddar, pesce e cipolla rossa essicata. Posso serenamente dirvi che esiste una vita pre-poke tacos e post-poke tacos. Le mie papille gustative non sono più le stesse da quel giorno. Un baccanale senza fine è partito nella bocca e non si è più fermato. Una bomba.
Si passa poi alla bowl: stremato dall’esperienza del bagno, decido di affidarmi a una creazione di Mignuolo, la Kauai, con riso integrale, polpo, finocchio, papaya, tobiko, anacardi e una salsa all’arancia, zenzero e pepe. Nell’attesa mi dondolo sull’altalena. Età anagrafica: 27 anni. Percepita: 8 scarsi.
«Dani vuoi provare uno dei cocktail?»
«Sì Stefi grazie»
Stefi: ormai noi migliori amici.
Bah, rincoglionito per rincoglionito, accetto. La mia maschera da giornalista wannabe è ormai sgretolata. Poi insomma, se ci sono 4 cocktail pensati per accompagnare i piatti un motivo ci dovrà pur essere, no? Voglio o non voglio diventare un vero giornalista food del panorama meneghino? L’experience deve essere a 360 gradi. Evito il Negroni del Marinaio, e opto per un Ohana Mule con aloe. Leggero. Tutti i cocktail, mi spiega Stefania, sono curati da Flavio Angiolillo del Mag Cafè.
Finalmente siamo io e la bowl faccia a faccia: il sapore è particolare e articolato. Sicuramente non immediato come può esserlo il sugo al ragù di vostra nonna, ma alla fine mi ritengo più che soddisfatto. Non è prevedibile come un sushi, ma ha delle caratteristiche che sicuramente lo ricordano, non solo per la presenza del pesce crudo.
Siccome ormai ho perso ogni dignità, piglio pure la mousse al cocco su crunch di arachidi e manca poco che spicchi il volo portato in gloria da angeli obesi nel paradiso delle cucine Scavolini.
Pensavo di provare un semplice piatto, ma alla fine, in poke-parole, ho sperimentato un’esperienza mistica che Claudia Koll s c a n s a t e.
Se volete provare anche voi le poke bowls, potete fare un salto da Pokeia in Via Magolfa 25/27 (da lunedì a domenica dalle 12 alle 15 e dalle 19 alle 24. Chiusi dal 6 al 19 agosto) e seguirli su Instagram e Facebook per poi diffondete il verbo come veri apostoli. Amen.
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