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Correva su per giù l’anno 2007 e io sbarcavo a Milano. Sono cresciuto in un piccolo paesino di circa mille anime: Zumaglia in provincia di Biella, profondo-alto-Piemonte. Non credo che Zumaglia vi possa interessare più di tanto, d’altronde fa quasi rima con Giargiania.

Di Milano invece sapevo proprio quello che un Giargiana normalmente conosce: il Duomo, la Rinascente. A malapena il Castello Sforzesco. Confesso che la prima cosa che ho fatto qui è stata infilare il tallone dentro le palle del toro in Galleria e iniziare a girare. Così, giusto come porta fortuna per il mio nuovo impiego.

Già, perché ero qui per lavorare sodo, visto che sui libri ritenevo di avere dato a sufficienza. Proprio per questo pensavo di non avere i problemi di cash che affrontano tipicamente gli studenti fuori sede.

In realtà, la Sciura che mi affittò il primo monoloculo in Porta Venezia pretese una super cauzione. Vari mesi di anticipo, la copia del contratto di lavoro e domande tese a mettere a dura prova la mia affidabilità di inquilino Giargiana. Neanche lo stessi comprando quel microscopico alloggio di 25 metri quadri, balconcino compreso!

Inutile dire che finii subito in crisi di liquidità. Prima di ricevere lo stipendio mi rimanevano solamente i soldi per un hamburger. Quella sera ho finalmente capito perché gli economisti misurano il costo della vita delle città in base al prezzo del Big Mac. Dalle vetrate di un McDonald’s che oggi non esiste più fissavo le luci e il traffico frenetico. Mi sembrava di essere su un boulevard parigino durante una gita delle superiori. Gli Champs Elysées erano Corso Buenos Aires e i bastioni di Porta Venezia il mio personalissimo Arco di Trionfo.

Il monoloculo, oltre al conto corrente, ha segnato profondamente i successivi sei anni della mia vita.

All’inizio l’unica persona che mi dava retta era Maurizio, il portiere della scala. Già, perché il supercondominio dove alloggiavo aveva un botto di appartamenti e ospitava forse l’intera popolazione di Zumaglia, ma nessuno sembrava particolarmente interessato a socializzare con i vicini.

Pian piano iniziai però a vivere il quartiere. Bar, kebabbari, la lavanderia e il supermercato all’angolo. Poi i vip che capitava di incrociare. Ai tempi specialmente Cristiano Malgioglio, ma anche Forattini e altri. Ogni volta che tornavo a Zumaglia avevo qualcosa da raccontare per far rimanere i miei amici a bocca aperta. Come quella volta che incrociai Ronaldinho in Brera.

Per me, rossonero sfegatato da sempre, prendere la metro e andare a San Siro era una figata pazzesca. Potevo permettermi giusto il terzo anello, ma pazienza. Il Milan era in Champions League e non faceva figuracce. Non lo sapevo, ma ai tempi già lo speaker ufficiale era Germano Lanzoni. Mai avrei pensato che quella voce che scaldava le mie serate sportive (GOAL del MIIILAN!) diversi anni dopo sarebbe diventata il volto de Il Milanese Imbruttito e, soprattutto, che saremmo stati in qualche modo colleghi.

Ma mica erano tutte rose e fiori. Gestire il senso di inadeguatezza che provavo ai primi aperitivi post ufficio e durante le prime serate era veramente pesante. Mi sembrava che tutti ne sapessero più di me, che fossero informati di ogni evento nonché muniti degli inviti più esclusivi nello sconfinato panorama della vita sociale milanese. Inutile dire che all’inizio non si batteva chiodo. Diffidate da chi sostiene possa andare diversamente.

Fino a quando non cambiai radicalmente atteggiamento: avevo interiorizzato che, a pensarci bene, Milano altro non è che una gigantesca Zumaglia. Dove invece della banda, del carnevale e della Pro Loco c’è Vasco Rossi che riempie il Forum per dieci concerti di fila. Soprattutto dove la più carina del paese non può tirarsela e giocare a fare Sei un Mito degli 883 perché qui c’è molta più competizione. Questa grande consapevolezza mi ha fatto recuperare un po’ di terreno e, soprattutto, di autostima.

Il lavoro era molto impegnativo e occupava larga parte delle mie giornate, ma le mille opportunità e occasioni offerte da Milano non andavano sprecate. Già, perché quando uno inizia ad avere i punti di riferimento e le proprie abitudini anche Milano diventa a misura d’uomo che non deve chiedere mai. Forse…

Ecco, a un certo punto, l’eccessivo presenzialismo e l’incapacità di selezionare gli eventi, mi fecero deviare dal mio percorso di riconversione urbana. La situazione degenerò durante una campagna elettorale sailcacchio di quale elezione. Da buon Giargiana mi infilavo in ogni posto si potesse scroccare qualcosa, che fosse un concerto in piazza sino ad aperitivi vari. Non mi importava minimamente di quale partito si stesse parlando. D’altronde non avrei nemmeno votato perché non avevo ancora spostato la residenza (lo so, sono cose affettive giargianiche, ai più incomprensibili).

Forse stavo sognando (o era un incubo), ma mi ritrovai all’Old Fashion con un Mojito in mano ad ascoltare P.C. – noto parlamentare centrista sempre eletto da decenni – che stava tenendo un breve comizio dal cubo mentre tutti i presenti si azzuffavano per il buffet. Ecco, lì capii che la mia frenetica vita milanese aveva bisogno di una pausa e che avevo l’estrema necessità di riordinare le idee prima del burn out definitivo.

Presi un paio di giorni di ferie attaccati al weekend e qualche libro alla biblioteca del mio quartiere. Leggevo nella sala studio osservando giovani universitari in botta per il prossimo esame. O il ragazzo di colore vestito da operaio che alla fine di una giornata massacrante ad asfaltare strade tentava di imparare l’italiano sino ad addormentarsi sfinito sul libro.

Andavo a correre all’alba al parco notando che, anche a quell’ora, c’è chi prepara la città al nuovo giorno lavando le strade o su e giù da un camion dell’Amsa. Poi visitai la Galleria d’Arte Moderna dove era ancora esposto il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (prima che lo spostassero al Museo del Novecento). Pranzo con un trancio da Spontini e di nuovo al parco dove vidi mamme, babysitter e badanti (pure qualche pusher a dire il vero). Il dolce rumore del traffico in sottofondo, quasi come se quei (troppo) pochi alberi fossero comunque in grado di arginare il trambusto della metropoli.

Comprai un biglietto dei mezzi e, sfruttando tutti i minuti di validità, girai su una serie di tram a caso. Le strade scorrevano. Gente di corsa e personaggi bizzarri. Negozi, locali e botteghe a far da base a eleganti e monumentali edifici. Le zone più periferiche. I palazzi giganteschi e tutti identici. Tanti microcosmi che forse non sanno nemmeno di essere, da soli, più grandi di una buona fetta dei comuni italiani. Sirene e clacson facevano da sottofondo mentre la gente saliva e scendeva.

Arrivai sui Navigli verso sera. La Darsena era ancora una zona abbandonata e non proprio invitante, ma ciò non mi guastò la vista di un meraviglioso tramonto sul Naviglio Grande.

Lì, con una birretta in mano, ho scoperto la casa di Alda Merini e il Vicolo dei Lavandai. Suggestioni e simboli che mi sono rigiocato enne volte per i broccolaggi o, semplicemente, per farli conoscere a chi con me condivide la Giargianità.

Questa è Milano. Una città che se sai stare al tuo posto ti accoglie come se fossi un F205 purosangue. Che tu venga da Zumaglia o da qualsiasi altro luogo.

Vista con gli occhi di un Giargiana che forse ora è diventato un po’ Imbruttito.

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