Bene, è cominciata ufficialmente la fase 2. Restrizioni allentate, molte attività riaperte, visite ai congiunti permesse ma quelle ai trombamici no (anche se poi nell’autocertificazione li avete spacciati per cugini). Bene dai, siete contenti? No? Bè, può succedere.
Se vi capita di sbirciare dalla finestra, osservando i tanti che dal 4 maggio si sono precipitati nei parchi riaperti, o nelle strade per andare a prendersi un caffettino (rigorosamente take away) al bar, ma a voi non viene alcuna voglia di varcare la porta di casa, probabilmente soffrite della sindrome della capanna. Niente di grave, sia chiaro. Succede solo che questa ritrovata (seppur parziale) libertà, galvanizza alcuni e spaventa altri. C’è chi, nonostante la quarantena imposta dall’emergenza Coronavirus, è riuscito a trovare nella clausura una propria dimensione, magari godendosi di più gli affetti, smazzandosi maratone di Netflix o coltivando passioni sopite. E adesso che il ritorno a una parvenza di normalità sembra possibile, si spaventa. Insomma, chi soffre della sindrome della capanna è più in sbatti all’idea di uscire nella fase 2 che di starsene chiuso in casa.
“Stiamo percependo un numero maggiore di persone in difficoltà con l’idea di uscire di nuovo – ha chiarito Timanfaya Hernández, psicologa del Collegio Ufficiale di Psicologi di Madrid, in una intervista a El País – Abbiamo stabilito un perimetro di sicurezza e ora dobbiamo abbandonarlo in un clima di incertezza. Conosciamo casi di persone che, dopo un ricovero in ospedale o essere stati in prigione, perdono la sicurezza e temono ciò che è fuori”.
Pare che il rifiuto di tornare alla normalità sia quindi una reazione comune, dettata dal modo in cui la situazione di stress ha modificato il nostro modo di percepire la realtà. “Ci sono diversi fattori che a livello individuale, in questo specifico caso, entrano in gioco e alimentano la voglia di rimanere tra le mura di casa. – ha spiegato a Vice Laura Guaglio, psicologa e psicoterapeuta – Innanzitutto, il rifiutarsi di vedere o accettare che i propri riferimenti siano mutati sensibilmente. Se esco mi rendo conto di com’è cambiato il mondo che conoscevo. Vedo la città deserta, i negozi chiusi, le persone che incontro sono munite di mascherina, guanti. La nuova realtà è impattante, può sconcertare, disorientare, potremmo rigettarla. A questo, poi, si unisce un fattore molto più prosaico: a livello neurobiologico e fisico, meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò voglia di uscire. A cui, ancora, si sommano le paure sulle probabilità di un contagio”.
Niente di definitivo, non preoccupatevi: basterà solo aspettare un po’, procedendo con calma e ognuno secondo i propri tempi. Un passo alla volta.
Articolo scritto da Wendy Migliaccio
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