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Food&drink
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Ci avete mai fatto caso che l’icona della categoria ristoranti di Glovo è quella di roll e bacchette? E la prima opzione di Deliveroo è il sushi? È indiscutibile che ormai Giappo is the new black per la maggior parte di noi, e così, con un tifo da groupie, ho deciso di provare gli unici due ristoranti stellati giapponesi in Italia, fondati da Claudio Liu, cinese, ma devoto al Giappone e alla sua cucina. 

La mia prima tappa è stato il suo primo ristorante, Iyo. Partiamo dal nome: deriva da Ukiyo che in giapponese significa mondo fluttuante, un mondo che oscilla tra reale e ideale, non visibile a tutti, ma solo a chi riesce a fermarsi e a soffermarsi sulle cose, significa un mondo senza fretta. Sbam, già mi ha affondata. 

Dal 2014 riceve la stella Michelin che ormai non gli toglie più nessuno da sette anni di fila, perché varcata la porta, la sensazione è di essere atterrati a Tokyo, accolti da una gentilezza discreta che solo i nipponici sanno dare, in un mondo sospeso nel tempo, rilassato, come di rado accade di sentirsi a Milano. 

Si può scegliere dal menù alla carta, ma come prima volta ho optato per il menù degustazione che si chiama Faccio iyo, perché è esattamente quello che ti dicono, guardandoti negli occhi e con un tono così rassicurante da sembrare la mamma quando ti dice che con un bacino passa la bua e tu ci credi. 

Qui la cucina è fusion ma zero confusion: è giapponese, e punto. È elegante, rispettosa delle tradizioni, è lenta. Nelle accezioni più belle di tutti questi termini. Iyo è un luogo che rallenta: il servizio è pacatissimo, mai sbavato, neanche in una smorfia involontaria del viso, si avvicinano con fare da ninjia, solo quando serve, e i gesti non sono mai marcati. In ogni piatto c’è il Giappone e bisogna dedicargli del tempo. 

Non spoilero le portate perché voglio lasciare a tutti i prossimi viaggiatori l’effetto sorpresa, ma posso dirvi che, esattamente come per tutti i voli, se lo accompagnate con il vino, le turbolenze non esistono. Io ho scelto l’opzione ad ogni piatto un calice di vino diverso scelto dal sommelier che, la butto lì, serve anche per affrontare con lo spirito giusto il momento del conto. Anche se in realtà, il rapporto qualità prezzo è eccellente e li vale davvero tutti; ci si sente pieni, quel pieno bello, senza h finale. 

Il buon Liu, nel 2019, ha regalato a Milano un’altra chicca in zona Porta Nuova, che ha chiamato Aalto, come la piazza in cui sorge, dedicata ad Hugo Alvar Henrik Aalto, architetto finlandese. In realtà, a strafare, ne ha aperto anche un altro: Iyo Omakase, un banco sushi con cui condivide solo l’ingresso lasciando i due ambienti distinti. Ma torniamo ad Aalto. Qui vi accoglie un gruppo quasi tutto al femminile, con una attenzione a tratti imbarazzante, ineccepibile. Credo di aver sibilato entrando, mentre proseguivo verso il tavolo, che avessi freddo alle mani, ma con decibel che non hanno raggiunto né la persona che avevo accanto né, credo, alcun cane della zona, ma appena mi sono seduta mi è stato portato un vassoio con un asciugamano bianco, arrotolato e caldo, davanti alle mie mani, così taac, da sogno. Se vi prendete una pausa bagno, sappiate che al ritorno troverete tutto piegato, anche la corda del telefono, e a intervalli regolari, tutti con le mani in alto perché sfoggiano una mini scopa per ripulire il tavolo anche dalle briciole che avete solo pensato. 

Inizio con una nota di merito a Liu per un’altra qualità che hanno in pochi: quella di saper dare i nomi. Dunque, da Aalto di giapponese ci sono sicuramente le mani dello chef Takeshi Iwai che contamina tutto, ma la base della cucina è volutamente indefinibile, rigetta ogni definizione e convenzione, le va stretto qualsiasi vestito e vuole sentirsi come vorremmo sentirci tutti: libera. Ebbene sì, la cucina si chiama cucina libera. E che gli vogliamo dire a questo nome?! Niente. È bellissimo.

Le radici sono italiane, i rami sono giapponesi, ma poi le foglie e i frutti sono un mix estroso e libertino, svincolato da tutto, che fa quello che vuole e ti arriva sotto il naso così, autentico e stravagante. Se questa cucina fosse una persona, potrebbe essere Morgan, per capirci. 

Anche qui io ho scelto il menù degustazione che consiglio a tutti quelli che ci andranno per la prima volta perché la selezione proposta è un’ottima guida per toccare i punti salienti di questo concetto culinario. Ho scelto otto portate con otto calici di vino associati che, alla fine, sono dieci perché aggiungono piatti come se non ci fosse un domani, per un totale di tre ore e mezza di spettacolo.

Arrivano portate diversissime tra loro, nessun filo rosso, nessuna connessione tra una e l’altra, come gli episodi di Black Mirror. Qui la sensazione di mondo sospeso e lento non c’è, in favore di un clima diverso, tutto incentrato sull’estro che, si sa, corre più veloce e a ritmi tutti soggettivi, e l’unico modo per viverlo è stargli dietro. Fate così. Anche perché, grazie alla selezione dei vini della sommelier, il mood all’uscita è inevitabilmente molto chill. Il conto va da sé, nel senso che scorre veloce come quello dei taxi nel traffico, ma è l’all in che si fa quando si decide di provare un ristorante stellato. 

Dopo queste esperienze ho il mio preferito? Sì. Lo tengo per me, perché i gusti sono diversi e tutti sono giusti, ma quello che ho pensato dopo aver chiuso la porta di entrambi i locali è che, al di là delle stelle, fare da mangiare per gli altri è una delle forme d’amore più belle in assoluto

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