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Allarme “hikikomori”: in Italia 54mila giovani vivono in clausura volontaria

Il fenomeno è stato per la prima volta oggetto di uno studio italiano, che ha permesso di scoprire quanti sono i giovani in ritiro sociale nel nostro Paese. Spoiler: tanti.

Raga, voi sapete cosa sono – anzi CHI sono – gli hikikomori? Come si può facilmente intuire, la parola è giapponese e significa stare in disparte, e viene associata a tutte quelle persone che decidono di ritirarsi dalla vita sociale, a volte anche per anni. Gli hikikomori vivono chiusi in casa, con i contatti esterni (compresi quelli familiari) ridotti al minimo. Uno stato di solitudine volontaria che riguarda per lo più giovani tra i 14 e i 30 anni di sesso maschile. Il fenomeno pare sia nato in Giappone negli anni Ottanta, ma si è diffuso poi anche negli States e in Europa. Nel Paese del Sol Levante questa condizione è legata principalmente alle caratteristiche della società: tanta competizione, rigida stratificazione sociale, fortissimo senso dell’onore, ma anche assenza emotiva del padre ed eccessivo attaccamento con la madre. In generale, quindi, grande pressione che genera ansia a manetta e spinge all’isolamento. Se poi ci aggiungiamo anche l’attaccamento tipicamento nipponico a videogiochi e tecnologie, ecco spiegato perché moltissimi ragazzi preferiscano vivere solo in un mondo virtuale, chiusi tra le rassicuranti quattro mura. Ma perché vi stiamo ammorbando con ‘sta cosa, direte voi: perché – un po’ a sorpresa – è venuto fuori che di hikikomori ce ne sono un botto anche in Italia.

Il fenomeno è stato per la prima volta oggetto di uno studio italiano, Vite in disparte, promosso dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada, e realizzato dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). L’obiettivo: capire quanti sono gli adolescenti italiani in isolamento volontario. Gli hikikomori, appunto. La ricerca ha preso il via dallo studio Espad®Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs) e ha coinvolto un campione di oltre 12mila studenti, rappresentativo della popolazione studentesca italiana fra i 15 e i 19 anni. I risultati, che si basano sull’autovalutazione degli stessi partecipanti, sono piuttosto inquietanti.

Il 2,1% del campione attribuisce a se stesso la definizione di Hikikomori, quindi parliamo di circa 54mila studenti italiani di scuola superiore, come confermato da Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr-Ifc. “Questo dato appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre: in quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi). Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44mila ragazzi a livello nazionale) che si possono definire Hikikomori, mentre il 2,6% (67mila giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo”. Non benissimo.

Anche da noi, c’è differenza tra maschi e femmine. I primi rappresentano la maggioranza fra i ritirati effettivi, anche se le girls sono più propense ad attribuirsi lo status di hikikomori. Diverse anche le attività scelte per trascorrere il tempo da ritirati: se le ragazze preferiscono dormire, leggere e guardare la tv, i ragazzi si scimmiano con i videogiochi. Ma da dove nasce questa esigenza dei giovani italiani di ritirarsi dal mondo? Tra le cause più significative, emerge il senso di inadeguatezza nei confronti dei coetanei, che comporta “frustrazione e auto-svalutazione”. Un altro dato particolarmente sorprendente riguarda le family degli hikikomori che – a detta di più di un intervistato su 4 -, avrebbero accettato l’isolamento dei figli senza farsi troppe domande. Disinteresse anche da parte degli insegnanti. Quasi un terzo dei docenti sembra non rendersi conto del problema: o non se ne preoccupa (27%) o pensa che l’assenza sia causata da una malattia (23,1%). Una mancanza di ascolto e comunicazione che – per fare della psicologia spicciola – forse incide implicitamente sul volontario ritiro dei ragazzi.

Oh, peso.

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