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Capire di avere una dipendenza non è certo una roba facile. Non arriviamo noi a dirlo, si sa. Oltre alle dipendenze più note, dalle conseguenze più evidenti, ci sono anche molte ossessioni più subdole e difficili da far emergere nella dimensione consapevole (figa, quanta saggezza). Tra queste si colloca senza dubbio il workaholism, aka l'ubriacatura da lavoro, alias la dipendenza dal job. Complicato, complicatissimo capire se siamo semplicemente persone molto ambiziose, particolarmente appassionate, con un lavoro che in questo momento ci sta mandando in sbatti o se in realtà abbiamo un problema. Epperò dobbiamo chiedercelo, perché essere dipendenti dal lavoro è una menata mica da ridere, che incide - e male - sulla nostra vita sociale, intima e personale. Anche in questo caso, non siamo noi a dirlo, ma esperti su esperti come la doc Valeria Signorelli, psicologa clinica e psicoterapeuta analitico-transazionale, alla quale abbiamo chiesto lumi sul workaholism. Anche perché è estate, l'occasione perfetta per guardarci dentro, magari nel relax di una vacanza, e capire se non ci stiamo facendo fagocitare troppo dal lavoro, sacrificando tutto il resto.

"Il workaholism non è presente nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali, ma è clinicamente considerato un comportamento patologico, inserito nelle new addiction, e va preso in considerazione il suo processo, ovvero il comportamento ossessivo compulsivo con cui si pensa e si agisce la sostanza, in questo caso il lavoro" ci spiega Signorelli, facendo un po' di chiarezza sull'argomento. E ocio, perché magari voi credete di essere semplicemente presi bene dal vostro lavoro, ma in realtà non state benissimo. "Il discrimine tra coltivare una passione, l’ambizione professionale e il workaholism risiede qui: quando pensare al lavoro e lavorare sono attività di cui non si riesce a fare a meno, che occupano tutta la vita dell’individuo, quando diviene, appunto, una dipendenza, un bisogno e non una scelta libera (anche se si crede questo)". Come si diceva, però, darsi un freno non è una roba facile.

"Non si è in grado di fermarci perché non la si riconosce come dipendenza patologica e/o perché, come tale, diviene molto difficile farne a meno". Ok, ma com'è che siamo diventati dei cricetini in una ruota e non ce ne siamo accorti? "Come tutte le dipendenze, le cause possono essere varie, ma generalmente tutte rappresentano un tentativo disfunzionale di fuga dalla realtà, compresa la realtà interiore, quindi emotiva, o di compensazione rispetto a un vuoto/mancanza interiore e/o di riconoscimento, approvazione, amore" ci spiega la doc.

E come ogni dipendenza, la scelta della sostanza non è casuale. "Nel caso del lavoro, è molto subdola e ben camuffata da un retaggio culturale che vede il sacrificio lavorativo come virtù, e da una società attuale che spinge alla massima resa nel minor tempo possibile, in cui il successo personale è spesso confuso con il successo professionale". E - dobbiamo dirlo - in questo Milano è la queen assoluta. Vista e vissuta come città delle opportunità, ma anche del lavoro instancabile, della reperibilità h24, della mail fuori orario, del meeting a pranzo. Un mood che - forse forse - sta però iniziando a cambiare, anche come conseguenza della pandemia. Figa, e allora da che parte si deve cominciare per affrontare (e si spera risolvere) il workaholism? "Per arrivare a fermarsi bisogna come prima cosa riconoscere questo problema. I segnali arrivano dai sintomi, che per un primo periodo sono ignorati, silenti e sopportabili, poi quando diventano invalidanti e massicci, portano l’individuo a chiedere aiuto. E la strada maestra è sicuramente un supporto psicologico dato da uno/una psicoterapeuta".

E allora, fate un check e valutate se avete uno o più di queste manifestazioni di dipendenza:

- Pensieri ossessivi per l’attività lavorativa anche quando non si sta lavorando

- Compulsione ad agire, quindi a lavorare e non riuscire a interrompere l’attività

- Sensazione e Credenza che il lavoro sia l’unica ragione di vita, l’unica cosa piacevole a discapito di tutto il resto

Ovviamente tutto questo porta a degli effetti che nel tempo raggiungono una maggiore intensità e inficiano la vita dell’individuo. Controllate, pure qui:

- Disturbi del sonno

- Disturbi dell’alimentazione

- Disturbi d’ansia (compresa quella provata per l’astinenza quando non si sta lavorando)

- Disturbi dell’umore (irritabilità, attacchi di panico, apatia, e in alcuni casi anche depressione)

- Abuso di sostanze

Se vi state rendendo conto di avere un problema... tranqui. Si risolve. Difficilmente, però, con una vacanzina a Porto Cervo, che può solo fare da palliativo. Affinché la cura cambi veramente il vostro modo di vivere il lavoro, serve un percorso serio. "La cura sta in un percorso di psicoterapia che possa lavorare sia sul sintomo per fornire strategie di riconoscimento e gestione, sia e soprattutto sulla causa, in termini tecnici sul vantaggio secondario della dipendenza nello specifico da quella sostanza: cosa va a colmare? Perché? Perché adesso? Cosa c’è fuori dalla realtà lavorativa? Cosa c’è dentro che non ci piace vedere o ci fa paura vedere? Da chi ci è mancata l’approvazione? Da chi non ci sentiamo amati?" ci spiega la dottoressa. Domande che non è sempre facile porsi, ma che sono basilari per arrivare al nocciolo della questione.

"Siamo inseriti in una narrazione storico-culturale di iper produttività, di ipervelocità, di misurazione quantitativa di tutto, che lascia davvero poco spazio al Sè e ai suoi bisogni emotivi. Questo potrebbe essere un buon obiettivo dell'estate, della pausa non vista come vuoto ma come occasione per stare in nostra compagnia, forse conoscerci per la prima volta, ascoltarci e saper chiedere aiuto laddove questo ascolto ci risulti confuso, difficile, doloroso". Dai, fateci una pensata.

 

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