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Sostegno alle donne, 3 aziende su 4 praticano il “pinkwashing”: tutta teoria, zero pratica

Lo rivela uno studio di LHH, società specializzata in soluzioni per le risorse umane. Più della metà dei business non attua politiche a favore dell’ascesa delle donne in posizioni di comando. Nell’80% delle "stanze dei bottoni" le donne sono meno della metà degli uomini. Fanculo.

Facciamo finta che tutto va ben“… Mezzo secolo fa me la cantava la mia nonna, ma evidentemente l’andazzo non è cambiato. Dopo il greenwashing – con cui si finge di avere l’azienda o il prodotto sostenibile e invece inquina più di una petroliera – adesso c’è anche il pinkwashing, con cui si finge di avere l’azienda che favorisce lo sviluppo delle carriere femminili e invece, toh… era uno scherzo, ma non diciamolo in giro.

Ne facciamo proprio di tutti i colori, eh, ma visto che per raccontare queste pratiche truffaldine ci sono parole inglesi vuol dire che gli stronzi non sono solo in Italia. Ci consoleremo per questo? Certo che no e, visto che i pistolotti sulla condizione delle donne / madri al lavoro ci appassionano un casino, ecco i dati sul pinkwashing all’italiana che ha diffuso LHH, società del Gruppo Adecco specializzata in soluzioni per le risorse umane.

Partiamo da un numero: 75%, in pratica 3 su 4. Tante sono le aziende in cui l’applicazione di politiche serie per la parità di genere non è affatto pacifica. Nonostante alla stragrande maggioranza dei dipendenti (84%) non importi del genere del proprio manager, ma solo delle sue competenze, in più della metà delle aziende italiane (58%) non si fa nulla per favorire l’ascesa delle manager sulle “poltrone che contano” e nell’80% dei business le donne nella C-suite (La vogliamo chiamare “stanza dei bottoni”? Preferite “consiglio di amministrazione”? Comunque sia è il tavolo a cui si prendono le decisioni che contano) sono meno della metà dei colleghi.

Tutti bravi a parole, insomma. Non troverete nessuno che vi dica: “Siamo un branco di maschilisti di m e non faremo mai nulla per cambiare la situazione“. Ma il problema è che 8 su 10 agiscono secondo questa logica. Per questo, rivela la ricerca, “emerge un’incoerenza tra comunicazione aziendale esterna e le attività realmente portate avanti internamente per favorire le pari opportunità di genere e l’accesso delle colleghe ai vertici“. Pinkwashing vero e proprio per 3 aziende italiane su 4 (75%), con le donne che ovviamente ne risentono decisamente più dei colleghi che in eguale proporzione (22%) sono meno interessati al tema oppure pensano che non sia nemmeno un tema.

Talvolta sembra che ci sia un vero e proprio buco a livello di comunicazione fra i diversi livelli aziendali, per cui ai vertici si parla di queste tematiche e si pensa di attuare politiche che favoriscano l’uguaglianza. Poi però esci dai ruoli manageriali ed è un disastro: il 72% delle figure secondo cui non ci sono politiche per favorire l’accesso delle donne a ruoli apicali non gestisce un team (quindi evidentemente chi lo gestisce non trasmette molto bene le informazioni).

Attenzione, non è che manchi la consapevolezza dei vantaggi: secondo l’indagine i dirigenti italiani sono convinti che la parità di genere stimolerebbe nuove idee (54%), che talenti variegati favorirebbero l’empatia (49%) e che l’inclusività tenderebbe a evitare turn over di talenti (40%). Eppure in oltre un’azienda su 4 (27%) si percepisce un ambiente poco collaborativo, con ristretta flessibilità oraria (27%) e senza un’effettiva apertura a programmi di “work from anywhere” e smartworking (25%). E guarda un po’? Tutto questo crea più problemi alle donne che agli uomini (29% vs 11%) a livello di work-live balance… e di conseguenza si tende a rimandare l’applicazione delle politiche risolutive… Che cazzari.

Autrice: Daniela Faggion

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