La prima volta che vi abbiamo parlato di Quiet Quitting era il 2022. Post pandemia, i lavoratori di tutto il mondo hanno cominciato a riflettere seriamente sulle priorità della loro vita, e molto spesso in queste riflessioni veniva fuori che il lavoro era la nota dolente. Sottopagato, insoddisfacente, faticoso. Ecco perché una prima emorragia con le Grandi Dimissioni, è stata poi la volta del Quiet Quitting: minore attaccamento al lavoro, una gestione individuale più flessibile dello stesso e rifiuto di sottostare alla cultura iperlavorista. In generale, i dipendenti sono disposti a svolgere solo lo stretto indispensabile, rifiutando straordinari, progetti extra e sbatti ulteriori, magari nemmeno retribuiti.
Bè, secondo l’ultimo Global Workplace Report 2025 condotto da Gallup, il 25% dei lavoratori italiani si dichiara “attivamente disimpegnato”, contro il 16% della media europea. Ennesimo segnale che – rispetto a molti amici europei – ne abbiamo ancora da mangiare di cereali sottomarca.
Il quiet quitting non si traduce in dimissioni formali o in rivolte visibili, quanto piuttosto in un progressivo disimpegno emotivo dei dipendenti. Faccio il mio, niente di più, niente di meno. Infatti, stando ai più recenti studi sul benessere mentale in azienda, una quota crescente di lavoratori (soprattutto under 40) si limita a svolgere il proprio compito senza più investire tempo, energia o passione oltre il necessario. Non per pigrizia eh, ma per una crescente disillusione nei confronti di un sistema che spesso chiede molto e restituisce poco. Una reazione probabilmente anche a decenni di lavoro-dipendenza, di operatività costante, di straordinari, di posto fisso come ambizione massima.
Cosa ci dice questo fenomeno? Possiamo parlare di una banale ondata di pigrizia o, più realisticamente, è un cambiamento profondo nel rapporto tra persone e organizzazioni?
“Nel contesto italiano, dove la cultura del lavoro è storicamente legata a un’idea di sacrificio, alla disponibilità continua e al senso del dovere, il quiet quitting rappresenta un cambio di paradigma profondo: il segnale che molte persone stanno ripensando il proprio rapporto con il lavoro”, – dichiara Lorenzo Cattelani, CEO e Founder di Clutch – “Non è una fuga, ma una forma di autodifesa: un invito urgente a ripensare modelli di leadership, percorsi di crescita e relazioni professionali oggi troppo spesso sbilanciate”.
Se il quiet quitting invita a ripensare il lavoro
Comunque oh, non è che il Quiet Quitting sia il male assoluto eh, talvolta è anche un’occasione per riflettere sulla propria vita, ripensare ai propri obiettivi. Si tratta alla fine di un comportamento legittimo, che riflette l’evoluzione di una generazione che non misura più il valore professionale in ore extra o nell’annullamento della sfera privata. Che c’è di male?
Ma quali sono gli avvenimenti che gettano nello sconforto i dipendenti?
“Le aspettative disilluse, una leadership inefficace e una cultura aziendale orientata a tutti i costi alla performance: sono questi gli aspetti che provocano un progressivo distacco tra il dipendente e l’azienda. In questo senso, il quiet quitting può (e deve) essere letto come un segnale prezioso per le organizzazioni: non tanto una minaccia alla produttività, quanto un termometro del clima interno. Quando l’energia emotiva si affievolisce, quando le persone smettono di partecipare attivamente, di proporre, di collaborare, è lì che si misura il vero impatto del progressivo distacco e disallineamento“, prosegue Cattelani.