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Chi pensava che il south working avrebbe perso attrattiva con la fine dell'emergenza Covid si dovrà ricredere. Due anni (e più) di pandemia hanno segnato in maniera indelebile il mondo del lavoro, che da tempo ormai sta provando a cambiare pelle. Per forza: le grandi dimissioni hanno dimostrato quanto i lavoratori (soprattutto i più giovani) siano disposti a rinunciare persino a un bel contrattino pur di guadagnarci in felicità e tempo libero. Non dovrebbe stupire, quindi, che le aziende italiane continuino a guardare con interesse al south working: a dircelo la ricerca South working per lo sviluppo responsabile e sostenibile del Paese di Randstad e Fondazione per la Sussidiarietà.

In sostanza è venuto fuori che le aziende si stanno organizzando per avere degli hub di lavoro al Sud, spazi di co-working ma anche vere e proprie succursali lontane dalle big cities del Centro-Nord. La ricerca ha evidenziato infatti come il 61% delle realtà interpellate sarebbe disposto ad aprire al Sud soprattutto per sostenere lo sviluppo del paese, mentre il 48% lo farebbe per scovare figure professionali difficili da reperire; il 35,5% ci sta pensando, invece, per ridurre i costi. Tutte motivazioni validissime eh. Un buon numero di imprese, il 61%, ritiene che occuparsi dell’hub non sarebbe uno sbattimento, anzi: si pensa possa essere gestito in modo diretto, evitando l'intermediazione di società di servizi esterne.

Questa crescente attenzione verso il south working è un'ottima cosa, e non solo perché i giargiana saranno più vicini alle loro family, al sole al mare e quelle balle lì. Lavorare da giù farebbe un gran bene al Meridione, che nei prossimi anni è destinato a un calo della popolazione superiore alla tendenza nazionale: secondo le stime, entro il 2030 gli abitanti di età compresa fra i 20 e i 64 anni si ridurranno dell’11%, rispetto al -6,7% atteso a livello nazionale. Una bella botta, che si spiega principalmente con la solita vecchia storia del lavoro, che al Nord c'è e al Sud no. Lo confermano i numeri: i ricercatori hanno analizzato oltre 1 milione e 420mila offerte di lavoro pubblicate sui principali siti di ricerca online tra il 2019 e il 2021, realizzando che le proposte di lavoro al Sud sono state solo l’8% del totale, nel Centro Italia qualcosina in più, il 14%, mentre al Nord un clamoroso 78%. Figa che divario.

Per fortuna che alcune aziende a questo problema ci pensano, e trovano nel south working un modo per contribuire non solo a un miglior bilanciamento delle risorse fra Nord e Sud, ma anche chiaramente una possibilità per favorire i propri interessi. "Sempre più imprese iniziano a considerare di favorire lo sviluppo nelle aree più fragili del Paese, cercando di trovare anche quelle competenze e quelle risorse preziose che sempre più si fa fatica a trovare nel Nord del Paese", ha confermato Marco Ceresa, group ceo di Randstad. Se da un lato, quindi, la creazione di un hub di lavoro può favorire il south working, consentire il reclutamento di competenze altrimenti non accessibili, garantire un miglior bilanciamento vita-lavoro e sostenere un indotto locale, dall'altro servono ovviamente alcuni presupposti ben precisi. Parliamo ovviamente di adeguate infrastrutture digitali, spazi idonei e "uno sforzo multilaterale tra aziende, agenzie per il lavoro, comuni di riferimento e atenei universitari".

"Molti lavoratori qualificati del Mezzogiorno potrebbero così mantenere un legame con il proprio territorio, senza rinunciare a preziose opportunità", ha detto Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. Che ne dite Giargiana?

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