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Editorial
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Dal mondo dei fumetti a un fatturato reale che supera i 120 milioni. La storia di C.P. Company ha visto più colpi di scena di una puntata di Game of Thrones, ma su una cosa siamo tutti d’accordo, l’azienda del creativo bolognese Massimo Osti è la vera pioniera dello street style, con buona pace degli americani che cercano di competere anche in questo. Spiace guys, ma quando si parla di moda l'Italia è sempre prima.

Passo indietro al 1971, Osti fonda il brand Chester Perry. L’ispirazione è una striscia di fumetti di Frank Dickens con protagonista Bristow, impiegato dell'ufficio acquisti in una immaginaria multinazionale, la Chester-Perry Co.Ltd. Gli esperimenti sull’uso di stampe per le t-shirt e soprattutto di colorazione capi e tessuti (la tinta in capo vi dice nulla?) distinguono fin da subito l’approccio alla moda della neonata azienda. Ma pochi anni dopo gli inglesi Fred Perry e Chester Barry la prendono sul personale intentando un’azione legale per l’uso del loro nome e cognome. Osti si scompone poco e nel 1978 Chester Perry diventa C.P. Company.

Mentre sperimenta e si diverte a reinventare il concetto di giacca con materiali nuovi, nuove tecniche e design (come la Goggle Jacket che da giacca per i piloti della Mille Miglia diventa un capo iconico ancora oggi) Massimo decide prima di dare vita a un nuovo brand, Stone Island (era il 1982), per poi vendere appena un anno dopo il 50% delle sue quote a Carlo Rivetti a capo del Gruppo Finanziario Tessile. Nel 1986 il Massimo cede la totalità dell’azienda e resta come designer. Rivetti intanto lascia il GFT e insieme alla sorella dà vita a un gruppo più grande, la Sportswear Company S.p.A che segue entrambe le creature di Osti. Lui, intendiamo Massimo ovviamente, rimane fino al 1994 quando decide di salutare anche la carica di direttore creativo. Why??? Difficile a dirsi, ma sembra definitiva la separazione tra la Osti family e C.P. Company.

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Negli anni successivi a capo del design del brand si alternano nomi come Romeo Gigli (che introduce la linea donna), Moreno Ferrari e Alessandro Pungetti (che resta dal 2001 fino al 2009 per poi tornare qualche anno più tardi). Nel 2010 Rivetti decide di tenere solo Stone Island e vende C.P. Company a FGF Industry Group Spa di Enzo Fusco, quello di Blauer per intenderci. A quel tempo i ricavi sono di circa 7 milioni. Nel 2012 il nuovo designer è Paul Harvey che inizia una collaborazione a 4 mani con…Pungetti! Vi ho detto che tornava.

Nel 2015 l’azienda compie 40 anni e Fusco parla di un export che assorbe l'80% del fatturato (mercato Uk primo della lista tra i compratori) e ricavi che l’anno prima arrivano a 12 milioni. Ammette però che C.P. Company potrebbe generare un fatturato dieci volte superiore, ma indovinate un po’? Bisogna investire. E come in qualsiasi relazione in cui "ti lascio andare perché staresti meglio senza di me" Fusco vende la Company alla Tristate Holdings Limited, gruppo di Hong Kong che fa capo all’imprenditore Peter Wang. Ma non solo. Pare che a dare l’imboccata a Wang per questa operazione sia stato Lorenzo Osti, figlio di Massimo che rientra in azienda come direttore marketing.

E qui ci sta una bella faccia shock da telenovela. Il nome Osti torna così a legarsi a C.P. Company e fin da subito la nuova proprietà punta al mondiale. Letteralmente. Leo Scordo, direttore generale, illustra il progetto di crescita con 15 nuove aperture internazionali entro il 2020 e l’intenzione di portare l’incidenza dell’e-commerce al 10% delle vendite. Nel 2019 Osti diventa presidente dell’azienda creata dal padre e nemmeno la pandemia rallenta i piani di rilancio del brand. Nel 2022 il fatturato arriva alla cifra di 117 milioni e questa volta è lo stesso Lorenzo a illustrare i nuovi piani del gruppo: "L’obiettivo è spingere il retail diretto al 40% del fatturato, portando il wholesale dall’attuale 80% al 60%". Nel mirino per la continua espansione ci sono Germania e Usa.

La storia non finisce qui, dopo un 2023 chiuso ancora in crescita (anche se leggera) le previsioni per il 2024 puntano a un incremento intorno al 5%. Per Osti l'importante è mantenere una crescita sana del brand per continuare a lasciare il segno anche nei prossimi 10-20 anni.

Che dire…su il cappuccio e all the best!

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