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Cos’è il Coffe Badging, lo sgamo di non vuole rinunciare allo smart working

In Italia non è proprio una novità, ma pare si stia intensificando.

Più si restringono gli spazi per lo smart working, più si allarga la fantasia di chi non vuole rinunciare a quella che sembrava un’evoluzione inarrestabile. Perché quando chiedi alle persone di rinunciare a videocall in mutande, presentazioni spiaggiati nel letto e pause pranzo indisciplinate, stai anche chiedendo ad altre di perdere infinito tempo in auto o sui mezzi, impazzire nella gestione della famiglia e tornare alle inutili riunioni in presenza. Un po’ come la punizione alla classe quando a rompere le palle sono in tre.

Disney, Meta, Apple, ma anche JP Morgan e Amazon, sono solo gli ultimi colossi finiti nei titoli dei giornali per questa decisione. Sulla carta non si capisce proprio tutta questa fretta che hanno scoperto di avere: un conto sono le imprese che producono qualcosa di materiale, per cui i dipendenti devono lavorare con macchine fisse; un altro conto sono le aziende tecnologiche o di consulenza, in cui i dipendenti se la giocano per lo più al computer e quindi, teoricamente, non dovrebbero notare molto la differenza. Non ci vuole un genio per capire che l’obiettivo sia controllare la produttività, per evitare che a casa le persone si imboschino e facciano altro al posto di lavorare, ma basta aver visto Fantozzi una volta per sapere quanto bene si possa cazzeggiare anche in un ufficio.

Comunque, un botto di gente non ha preso bene la fine dello smart e il ritorno in office, e pare che stia cercando in tutti i modi di evitarlo. Fra le tante tecniche, sta facendo parecchio chiacchierare Oltreoceano il coffee badging. In che cosa consiste? In pratica, molti lavoratori strisciano il badge in ingresso e si fermano tatticamente alla macchinetta del caffè: lì conducono un’intensa vita sociale per farsi vedere e poi… magicamente scompaiono nel nulla, qualcuno addirittura se ne torna a casa direttamente dopo aver pagato pegno alla presenza. I maghi di questo nuovo sport pare assoldino addirittura colleghi che parlano a loro nome alla macchinetta del caffè, così che la presenza venga anche solo “respirata”, nemmeno vista. 

La cosa ha messo parecchio in allarme i dirigenti in giro per il mondo, ma forse non stupisce così tanto noi Italiani, che abbiamo avuto negli anni pagine e pagine di giornale dedicate ai “furbetti del cartellino“. Avete presente i video che ogni tanto girano, in bianco e nero, con gente che timbra e poi gira i tacchi ed esce? Oppure, tutti quei dipendenti comunali pizzicati a fare la spesa o andare in palestra in orario di lavoro? Certo, parliamo soprattutto di pubblico e non di privato, ma l’andazzo sembra essere lo stesso.

Evidentemente sul piatto c’è il tema della presenza obbligatoria che va sempre più stretta e della necessità di migliorare il work-life balance. Da un lato, secondo i boss la presenza in ufficio rafforza la cultura aziendale, la collaborazione e le attività di brainstorming. Dall’altro, per chi si era abituato a gestirsi in autonomia, il rientro negli schemi a tempo pieno è come uno shock anafilattico. Due rette parallele di pensiero che rischiano di non incrociarsi più.

Quindi poi non c’è da stupirsi che molti facciano i “furbetti del caffettino“: è solo un po’ di sana ribellione a schemi superati. Perché, parliamoci chiaro: per essere performanti siamo spesso diventati schiavi di ambienti tossici, sessisti e pieni di stronzi.

Autrice: Daniela Faggion

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