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Lifestyle
ufficiocina

Non siete pronti.

In Cina i disoccupati pagano per affittare finti uffici e fingere di lavorare. E la cosa incredibile? Sono pure giovani. Il fenomeno dei fake office sta spopolando in Asia, soprattutto in Cina, dove si è già trasformato in un vero e proprio business con tanto di regole e mercato.

Brief al volo sulle origini del fenomeno

L’idea nasce da alcune aziende che, mentre i lavoratori sono alla ricerca di un impiego vero, offrono uno spazio simile a un co-working… ma con molto meno working. Si sta insieme, si cazzeggia, ci si dà supporto psicologico a vicenda e si tiene viva l’illusione di stare facendo qualcosa di produttivo.

Questi finti uffici sembrano veri: scrivanie, pc, Wi-Fi, macchinette del caffè e addirittura riunioni simulate. Ma la vera domanda è: chi cavolo glielo fa fare di pagare per partecipare a quelle benedette riunioni inutili che noi, qui in Italia, cerchiamo in tutti i modi di schivare?!

E non finisce qui: alcune “aziende” offrono anche la possibilità di inscenare finti litigi tra colleghi, scioperi, proteste… tutto finto, tutto curato. È teatro sociale in salsa aziendale. In pratica regitano un copione e a fine giornata si torna a casa soddisfatti di aver fatto finta di lavorare. Ci sono persino capi finti che assegnano compiti finti tipo: “dai una controllata alle mail”, “sposta quelle scatole”, “fai finta di fare una call”. Così, giusto per passare il tempo.

Ma quanto costa 'sta roba?

Vi state chiedendo quanto costa il teatrino? Poco: tra i 30 e i 50 yen al giorno, cioè 4-7 euro. Economico, va detto. Ma la domanda vera è: perché lo fanno?

Questione di immagine, ovviamente. In Cina il tasso di disoccupazione giovanile è in salita: nella fascia 16-24 anni, parliamo del 16,5% senza lavoro (dato di marzo 2025). E quindi? Meglio fingere di lavorare che ammettere di essere disoccupati ai pranzi con i parenti. Se poi qualcuno prova a seguirti per controllare… tu in ufficio ci vai davvero. Cosa ci fai lì dentro è un altro paio di maniche.

E occhio, perché dopo un po’ magari ci credono pure loro…

Ovviamente non mancano le polemiche. C’è chi apprezza l’idea come alternativa creativa al nulla cosmico e chi, invece, parla di tempo sprecato e illusioni dannose. C’è chi li prende per il culo e chi si incazza perché questo business lucra sulle fragilità di chi è in difficoltà.

Intanto, sull’app Xiaohongshu (una specie di Instagram cinese), queste “aziende” stanno spaccando: pubblicità ovunque, milioni di visualizzazioni e tanti giovani che ci cascano con "entusiasmo". E chissà, magari tra qualche anno anche da noi si pagherà per far finta di lavorare. Che poi, a ben guardare, forse lo facciamo già. Ma va bene così: basta crederci.

 

 

Autrice: Martina Gallazzi

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