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Alla Gen Z lo stipendio non basta più: se non si sentono ascoltati, preferiscono “saltare” da un lavoro all’altro

Ci siamo fatti spiegare l'ennesima espressione inglese da uno che sa come evitarla nella sua azienda
16 Ottobre 2025

Dite la verità: vi stavano mancando un po’ di anglicismi da veri Imbruttiti. Per questo ne abbiamo pescato uno divertente e abbiamo trovato l’espertone per contrastare il fenomeno. Di che parliamo? Di job hopping, fenomeno cresciuto moltissimo negli ultimi anni sul mercato del lavoro, soprattutto tra i Gen Z. In pratica il “salto del lavoro” è la tendenza – soprattutto tra i giovani – a cambiare frequentemente la propria attività, nella speranza di trovare nuove sfide da raccogliere, migliori condizioni da spuntare e un equilibrio più sano tra vita privata e professionale.

Il posto fisso non tira più

Secondo il Randstad Workmonitor 2025 – un’indagine condotta su oltre 26.800 persone in 35 Paesi, tra cui 756 in Italia – il classico “posto fisso” non tira più… ammesso peraltro di trovarne ancora qualcuno libero. Le nuove generazioni non si accontentano più di uno stipendio competitivo: cercano – tenetevi forte – autenticità, appartenenza, crescita personale e professionale. Miraggi per chi, come me, ha fatto la gavetta all’insegna del nonnismo e del maschilismo più becero… ma per fortuna i tempi sono cambiati e mo’ i giovani si sono fatti furbi e, appena possono, vanno a stare meglio.

I numeri parlano chiaro:

  • 6 lavoratori su 10 lascerebbero l’azienda se si sentissero inascoltati;
  • oltre la metà si dimetterebbe in un ambiente di lavoro tossico (non si capisce perché gli altri ci dovrebbero rimanere);
  • 9 su 10 rifiutano un’offerta che compromette l’equilibrio tra vita privata e lavoro.
  • più di 3 su 10 appartenenti alla Gen Z ha già lasciato un lavoro perché costretto a nascondere parti della propria identità.

Come contrastare il job hopping?

Per non parlare di aria fritta, siamo andati a caccia di un caso concreto di azienda che – consepevole delle nuove esigenze – sta bene attenta a scegliere i talenti, a coltivarli e, soprattutto, a non farli scappare. La scale-up italiana Aryel, fondata cinque anni fa, è un’azienda specializzata in display advertising interattivo e vanta un tasso di turnover bassissimo: appena 0,29%. Il suo team è composto per il 69% da under 35 e per il 33% da professionisti tra i 25 e i 30 anni. Quindi, inutile che io mandi un curriculum perché sembrerei loro un dinosauro!

Secondo il CEO e co-fondatore Mattia Salvi, la chiave per trattenere i professionisti non sono semplicemente i benefit o lo smart working, ma un mix di autenticità, ascolto attivo e percorsi di crescita reali. Allora siamo andati a vedere che non siano solo belle parole, o peggio, specchietti per le allodole.

Salvi ha messo in fila 9 leve strategiche che, secondo lui, aiutano a costruire un ambiente di lavoro capace di motivare e trattenere anche le generazioni più fluide e “mobili”. Quali sono?

1. Le idee non hanno età

Limitare il contributo dei più giovani è un errore. Dare voce anche a chi ha meno esperienza significa favorire l’innovazione. Le nuove generazioni vogliono essere ascoltate, non “messe in fila”.

2. Allergici al “si è sempre fatto così”

Il passato non può diventare una gabbia. I talenti vogliono contribuire al cambiamento, non incastrarsi in processi obsoleti.

3. Coinvolgimento, non mera esecuzione

Chi lavora in azienda vuole sentirsi parte della visione strategica, non aspettare ordini dall’alto. Coinvolgere aumenta motivazione e senso di appartenenza (e, va da sé, anche il business).

4. L’ambizione non è opportunismo

I collaboratori non cercano scorciatoie, ma chiarezza nei percorsi di carriera e feedback costanti. Serve una progettualità che dia spazio all’evoluzione personale. Sennò poi la gente si rompe.

5. Stop al “presentismo

Valutare le persone per la loro presenza in ufficio è una pratica superata. I talenti cercano fiducia, autonomia e flessibilità, non controllo. Quindi, praterie per lo smart working!

6. Meritocrazia chiara e trasparente

Premiare il merito deve essere un principio reale, non solo dichiarato. Ambiguità e favoritismi spingono i migliori ad andarsene. Col dito medio alzato.

7. Leadership non è comando

Il capo autoritario lascia spazio al leader empatico, capace di ascoltare, motivare e rimuovere ostacoli. La leadership si esercita con l’esempio, non con il potere.

8. L’errore fa parte della crescita

Un ambiente che permette di sbagliare e imparare promuove innovazione e responsabilità. Centralizzare ogni decisione, invece, ammazza l’iniziativa. Come nella coppia.

9. Feedback continuo e reciproco

Il confronto non può avvenire solo ogni sei mesi. Serve una cultura del feedback sincero, orizzontale e bidirezionale, in cui anche i collaboratori possano valutare i manager.

La cultura è la vera retention

Abbiamo iniziato con un anglicismo e finiamo con una bomba. Per trattenere i talenti non basta una policy HR ben scritta. Serve una cultura aziendale solida, fondata su valori concreti, praticati ogni giorno. “La missione di un’azienda non può essere solo uno slogan”, ricorda Mattia Salvi. “In Aryel, per esempio, facciamo audit regolari per garantire equità e prevenire bias. Siamo selettivi, ma trasparenti e coerenti. È questa coerenza che fa la differenza.”

Aspettiamo feedback dai dipendenti, anche sottobanco 😉

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