Bagnetti, pannolini, primi passi… e primi codici sconto: la nuova generazione di star dei social non guida auto sportive, né fa le stories da Corso Como, piuttosto inciampa sui tappeti del salotto di casa e fa ruttini a favore di smartphone. Sono i figli dei family influencer, bambini che — prima ancora di saper camminare — sanno già guardare dritti in camera, sorridere al momento giusto e dire: “Ciao amici, oggi vi mostro la nuova pappa bio-gluten-free!”.
Famiglia felice e sponsorizzata
In principio furono le mamme blogger, poi sono arrivati i family influencer, e infine gli infant content creator (sì, esiste anche questa definizione). Il format è collaudato: due genitori fotogenici, un appartamento minimal con piante sempre vive e bambini perennemente sorridenti e la vita familiare che diventa un flusso continuo di “contenuti autentici”… con un filtro e il brand in evidenza.
In Italia, i più noti sono Beatrice Valli, LaSabri e Ludovica Valli: milioni di follower, case perfette e figli che sembrano usciti da una pubblicità vintage del Mulino Bianco. A Milano, capitale del lifestyle e del “tutto è content”, si concentra buona parte del fenomeno, perché è qui che un semplice pomeriggio al parco può diventare un reel da 300mila visualizzazioni e un contratto da 5.000 euro con un marchio di passeggini.
Figli, follower e fatturato
Il mercato dei family influencer è in piena salute: con 50-100 mila follower si guadagnano tra i 500 e i 1.000 euro a post, mentre i profili top arrivano a decine di migliaia di euro per singola campagna.
E non si parla solo di pubblicità di pannolini: tra le collaborazioni più comuni ci sono hotel, automobili “family friendly”, linee beauty “mamma glow” e perfino gadget tecnologici “per il papà smart”.
Dietro il feed patinato, adesso qualcuno apre il dibattito serio. Uno studio di Terre des Hommes Italia, realizzato con IAP e Università Cattolica, ha analizzato 20 profili e oltre 1.300 contenuti social: i risultati sono tutto tranne che teneri.
- I minori compaiono in un contenuto su due tra quelli “organici” e in uno su quattro tra quelli sponsorizzati.
- In un terzo dei post pubblicitari, sono protagonisti attivi: scartano pacchi, mostrano prodotti, lanciano promozioni.
- Le tutele della privacy? Nel 7% dei contenuti organici e solo nel 2% di quelli sponsorizzati.
- Nel 21% si mostrano momenti intimi (bagnetto, cambio, nanna).
- L80% dei bambini coinvolti ha meno di 5 anni.
Terre des Hommes chiede ora di equiparare il coinvolgimento dei minori nei contenuti social alle forme di lavoro minorile, con tanto di autorizzazioni preventive della Direzione Provinciale del Lavoro e registro delle pubblicità in cui appaiono bambini. In effetti, se un bambino lavora in uno spot televisivo serve un permesso; se lo fa su Instagram, no. È un paradosso tutto contemporaneo: il figlio come “collega di set”, il genitore come “datore di lavoro affettivo” o “social media manager”… brrr. Insomma, la family influencer economy nasce per “celebrare la famiglia autentica”, ma finisce per trasformare la spontaneità in strategia.
Quindi?!
Qualcuno parla di registro per i minori influencer, ma sarebbe prima di tutto utile un piccolo vademecum per i genitori-creator:
- Se tuo figlio non vuole farsi riprendere, non è “mood introverso”: è privacy.
- Se un momento è “troppo intimo per non condividerlo”, forse è proprio meglio non condividerlo.
- Nessun bambino sogna di diventare testimonial del detersivo per pavimenti, nemmeno se è bio.
I social sono una vetrina potente, ma anche un archivio permanente. Forse un giorno questi bambini, quando saranno adolescenti, scorreranno i loro video d’infanzia chiedendo conto del numero di visualizzazioni.









