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C’era una volta, negli anni ‘90 (e primi 2000), una mandria di ragazzi rasati a Milano (e non solo) al cui passaggio si scansavano tutti, dai Sancarlini ai Tamarri, dai Babbidimichia ai Punk, fino ai Figlidipapà (soprattutto i Figlidipapà): erano loro, i Gabber.

I gabber, giusto per dare due info di base a chi si fosse perso questa roba, erano i membri di una sottocultura giovanile degli anni ’90 ispirata alla musica hardcore (che apparteneva al mondo della tehcno, ma con delle belle differenze) e nata come movimento suburbano in Olanda, da cui si diffuse in tante zone d’Europa.

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E in Italia? Anche nel nostro caro Paese, e pure a Milano, c’erano, ed erano ben riconoscibili, specialmente dall’outfit. Lui, il gabber, aveva praticamente costretto il padre a versare l’intero stipendio di marzo alla Lonsdale (qualcosa pure alla Fred Perry e a Sergio Tacchini), comprandosi relative polo, giacchetta e cappellino (rigorosamente rialzato con la visiera curva e all’insù) sulla testa rasata rasata che manco Crapa Pelada la fà i turtei; jeans o pantaloni della tuta Fila o Australian; e ai piedi a scelta Air Max o le Buffalo. Si, quelle con le zeppe enormi sotto. Anche i ragazzi. Esatto. E lei? Beh, una vera gabberina innanzitutto si rasava la nuca per far capire al mondo intero che anche lei faceva parte della cofranternita gabberista, e poi trecce, trucchi belli sgargianti, magari una gonnella della Australian e infine, immancabile quanto incomprensibile, il ciuccio. E poi le gabberine salutavano tutti i con tre baci: uno per guancia e l’ultimo sulle labbra… un sistema che fece vacillare anche un babbodiminchia come me nei primi 2000 nel pensare di diventare gabber, che sai mai che poi ci scappa pure un limone. Ma alla fine resistetti. Un babbo stoico, insomma.

 

 

 

Che poi mica è finita qui: bisognava pure capire se uno era semplicemente gabber o un Warrior. Perché i Warrior (ossia i Guerrieri hardcore, che dal nome facevano già intuire quanto fossero i possibili compagnucci di serate tranquille e votate al confronto dialettico edificante) si mettevano anche le borchie e si facevano creste con punte colorate. Ma non erano punk, erano Warrior. E se li confondevi la reazione era semplice e prevedibile: manica di schiaffi.

 

Lasciando perdere il discorso di posizionamento politico giovanile del genere, che era sicuramente di nicchia e perlopiù stereotipato (cazzonesapevanodavvero), il Gabber, o gabbermafia, o gabber Warrior, con la sua amata gabberina, dopo essersi fatti 40 o 50 vasche in corso Vittorio Emanuele o un giro lungo nel proprio quartiere e aver dimostrato a tutti quanto faceva brutto, tornava a casa sul suo Phantom o nella sua punto scassata (con dadi fluo appesi allo specchietto retrovisore) e si preparava per il momento più importante della settimana, o forse dell’intera vita: LA SERATA.

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Dalla musica (come d’altronde per moltissime altre culture) era nata la filosofia suburbana gabber, e questa forza doveva necessariamente essere dimostrata perlomeno settimanalmente, sfoderando i tipici balletti, la hakken, i gomiti alti, qualche bella rissa e, perché no dai, anche una folkloristica piramide umana in luoghi deputati a tutto questo come il Number One di Brescia, o nei rave dedicati. Il tutto sulle note dei Dj e pezzi hardcore (nei sottogeneri mainstyle, commercial o terrorcore) come «È È È arrivato Tatanka e e sono arrivati i Carramba» (o la versione alternativa «e ha portato la bamba»), oppure The stunned guys, dj mad dog, o tanti altri.

 

Se è vera la stima che nel 1996 in Olanda 1 giovane su 3 fosse un gabber, a Milano non così tanto, ma forse, nei primi 2000, 1 su 20 sì. Oggi invece trovare un gabber in giro per Milano è più difficile che trovare un indiano con le rose che emette regolare fattura, ma qualcosa di questo movimento esiste e vive ancora: ci sono diverse serate con musica hardcore in giro per l’Italia, e anche progetti che tengono in vita o in memoria la sottocultura.

«Hardcore will never die», si sentiva spesso tra i ’90 ed i 2000. Ma «Hardcore will be back» in Italia?. Qualcosa c’è, ma è difficile che possa riprendere così tanto piede, perché in giro era una moda… e «quando è moda è moda» ci ha spiegato un certo Gaber, ed è quella B in meno che fa la differenza.

Credit immagine di copertina

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