La prima volta che le ho viste è stata quando una zia del Nord me ne ha portate alcune mentre vivevo ancora in Sicilia.
“Ti possono essere utili”, aveva detto.
Erano una decina di borse di tela modello shopper. Non le avevo mai viste in giro per la mia città. Osservandole, mi son detta: “ma a che cazzo servono?”.
Pensavo: se esco in giro, ho sempre la borsa con me; se devo andare a fare la spesa, mi faccio dare il sacchetto di plastica alla cassa (ciao Greta Thunberg, ero una scellerata) e figurati se mi vado a ricordare di portarmi la borsa da casa.
Forse avrà influito anche il fatto che erano delle shopper abbastanza anonime e poco moda, insomma, facevano cagare.
Anni dopo, mi sono trasferita a Milano e lì ho cominciato ad assimilare alcuni atteggiamenti Imbruttiti, a molti dei quali ho finito poi per affezionarmi: il sushi, tenere la destra sulle scale mobili per non farmi travolgere da chi arriva da dietro, inviarmi email da sola come reminder per i tanti, troppi, impegni… e così via.
Tra questi, ho preso anche la mania delle borse di tela.
La prima shopper di tela a Milano l’ho ricevuta al MUDEC, credo me l’avessero regalata prima di una mostra, era un’edizione speciale per Expo. Nera, con il logo del museo e il profilo di Milano in bianco: non era male, con quei colori neutri era anche esternabile a un aperitivo. Si sa che il nero sfina.
Quella prima borsa è finita per essere una fidata compagna per anni, finché qualche mese fa si è auto-distrutta sfondandosi in più parti. L’ho sfruttata molto, ha avuto un’onorata carriera.
Se un tempo mi chiedevo cosa cazzo ci tenessero i milanesi in quelle borse, adesso l’ho capito. Io le uso per tenerci di tutto, ovvero quello che non va nella borsa: tipo l’ombrello (perché a Milano il tempo è pazzo e la pioggia sempre dietro l’angolo come il merdone del venerdì alle 17), una giacchetta in più (sempre per lo stesso motivo delle temperature totalmente ad minchiam), un libro per i momenti di intellettualità sui mezzi pubblici e ovviamente l’immancabile schiscetta per le pause pranzo deprimenti in ufficio.
Dopo quella prima shopper ne sono seguite altre, ricevute oppure comprate come gadget a fiere. Alcune anche con delle illustrazioni o frasi trasgry e un po’ porno, che quando sono sui mezzi giro dal lato non stampato per sfuggire allo sguardo scrutatore delle sciure.
Me le sono portata perfino in viaggio, facendole diventare un bagaglio bonus da tirare fuori al bisogno: è morbida, la arrotoli e la infili in qualsiasi angolo del trolley o in tasca. Quando la amata Ryanair mi dice che è terminato il limite dei bagagli e il mio sarà stivato a forza, è proprio nella shopper che ficco quello che deve assolutamente viaggiare con me (tipo il notebook, l’acqua, le Pringles alla paprika e il cappello di lana se sto rientrando dalla Sicilia a Milano).
Così, ho cominciato a capire qual è il senso di questo accessorio: quando non sono casuali ma scelte ad hoc, le shopper dichiarano una appartenenza a una qualche categoria di persone, diventando quasi un fetish. Nel 2011 il New York Times le ha definite l’accessorio «perfetto per questi tempi di recessione e post-lusso» (leggasi poraccitudine) dato che «lo status è trasmesso non dal denaro ma dal successo, dal senso etico e dalla cultura» (leggasi radical-chic). Quelle del New Yorker sono diventate così diffuse che c’è un profilo Instagram che raccoglie le foto di newyorkesi in giro con le shopper del New Yorker
Appena ho cominciato ad adottare le shopper mi sono resa conto, osservandomi intorno, che più della metà di chi gira per Milano ne aveva una con sé. Ti sembra non ci sia, poi guardi meglio… eccallà, sotto l’ascella. È fantastico constatare che sono un accessorio trasversale al sesso e all’età: la puoi vedere addosso alla sciura che va a fare la spesa al mercato di Papiniano e al ragazzo hipster in Porta Venezia.
La shopper di tela è genderless, ma non solo: può veicolare messaggi.
Spesso sono messaggi pubblicitari ed è usata come strumento di marketing in quanto gadget brandizzato, dato che perfino il panettiere sotto casa può pensare di realizzarne una, se ha un occhio per queste cose. Oppure diventa una piccola opera d’arte da portarsi in giro, veicolando cultura, come nel caso delle shopper con illustrazioni o legate al mondo dei libri.
Infine, la shopper può farsi portatrice di un messaggio di attivismo sociale.
Giugno come sappiamo è il mese del Pride, che per alcuni è la parata in cui persone che si chiamano ama tra loro e si vestono in maniera poco sobria avanzano la bizzarra pretesa di rivendicare dei diritti, sfilando in maniera variopinta per arrivare a Porta Venezia, la roccaforte della temuta e famosa lobby gay milanese.
Ho sempre desiderato la classica shopper arcobaleno, sia perché amo le cose colorate, sia per il significato di questa bandiera, in quanto sono una alleata della comunità LGBTQI+.
A regalarmela ci ha pensato una cara amica al mio ultimo compleanno.
Adesso sono dotata di una divisa.
In questi giorni di avvicinamento al Pride, che a Milano si terrà il 29 giugno, ho cominciato a guardarmi intorno con occhi diversi. Appena scorgevo una persona con la shopper arcobaleno, sentivo dentro di me come un riconoscimento tra simili (come quando capto un accento siculo alla Fiera dell’Artigianato): esclusi quelli che se la portano a spalla casualmente o per gusto estetico, una buona parte quella borsa l’avrà scelta, perché ha scelto di portare un messaggio molto chiaro in giro, soprattutto in questi tempi grigi e bui.
Guardo di nascosto questi sconosciuti con la borsa di tela arcobaleno e penso: noi lottiamo per la stessa causa. Siamo sulla stessa barca. O sullo stesso carro, se preferite.
Con quella borsa noi urliamo un messaggio.
Il messaggio che esiste uno spettro di colori e che l’umanità e l’amore vanno riconosciuti e difesi per ognuna di queste sfumature.
Un messaggio da portare con sé, su di sé, in braccio, sotto l’ascella, sulle spalle, sulla pelle.
Ci si vede in giro.
Buon Pride Month!
Articolo scritto da Marvi Santamaria, autrice del blog Match and the City
Seguici anche su Instagram, taaac!