Vai a sapere se è frutto della pandemia, o di decenni di precarietà e sfruttamento. Sia come sia, la questione è chiara: la Generazione Z (i ragazzi - per intenderci - nati tra la fine degli anni '90 e i primi anni 2010) non hanno più voglia di farsi il culo quadrato per portarsi a casa lo stipendio. Non hanno più quella dedizione al sacrificio che era proprio dei nostri genitori, e ancor più dei nostri nonni. Ora, le strade sono due: possiamo fare i Giacomini della situazione, e lamentarci che i giovani di oggi sono degli scansafatiche, oppure possiamo provare a fare un passo indietro e guardare la situazione d'insieme. Senza aria giudicante, che fa molto boomer. A dipingere l'andazzo della gioventù moderna è un approfondimento di Bloomberg relativo ai guys inglesi, ma che ben si adatta anche ai giovani italiani.
A confermare il mood dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni anche il Report FragilItalia "I giovani generazione Z e il lavoro" di Legacoop e Ipsos, condotto su un campione di 800 persone rappresentativo della popolazione; la ricerca racconta come la competitività e l'ambizione nel campo lavorativo abbiano ormai lasciato ufficialmente posto alla sicurezza di uno stipendio con una base fissa e una componente variabile legata ai risultati raggiunti. Vivere per lavorare? Anche no: meglio puntare su professioni che garantiscano flessibilità di orario e permettano di godere serenamente del proprio tempo libero.
Un dato interessante riguarda la possibilità di lavorare lontano da casa. Nessun problema per i ragazzi della Gen Z, che hanno il gene del nomadismo inside. Il 76% si è detto disponibile ad accettare una proposta di lavoro in altre provincie della propria regione, il 73% in un'altra regione del Centro Italia, il 70% in un'altra regione del Nord, il 69% in un altro Paese europeo, il 54% in un'altra regione del Sud. Ci si sposta più volentieri per cercare condizioni di lavoro più soddisfacenti: il 53% si trasferirebbe per ottenere uno stipendio più alto, il 29% per migliori opportunità di fare carriera, il 26% per cercare una maggiore valorizzazione di competenze ed esperienze. E c'è poi un altro 23% che lamenta l'attuale situazione italiana, fatta di contratti di stage e raccomandazioni.
Il lavoro non è più in pole position tra le cose importanti della vita. Per i ragazzi al primo posto c'è la famiglia (60%, media nazionale del 78%). Awww. Si punta molto anche sull'amicizia (54%, media nazionale 59%) e sull'amore (50%, media nazionale 63%). Quanto romanticismo. Per trovare il lavoro bisogna scrollare fino alla sesta posizione con il 38% delle preferenze (rispetto alla media nazionale del 49%). Più importanti del lavoro sono divertimento (46%) e cultura (44%). Ma pensa, l'avreste mai detto?
Insomma, il lavoro è importante, ok. Ma più che altro serve per avere dei soldi a fine mese che ci consentano di essere felici. Per quasi 6 giovani su 10, infatti, l'impegno professionale rappresenta una fonte di reddito, mentre solo per la metà è un'opportunità di crescita; per il 45% resta un modo fondamentale per affermare la propria indipendenza. Come anticipato all'inizio, anche Bloomberg conferma il deciso cambio di rotta. Stando ai dati della piattaforma di ricerca di lavoro Adzuna, c'è stato un notevole aumento di ricerche per posizioni come amministratori di ufficio, account manager e addetti al marketing, lavori che pare siano più flessibili e meno stressati. Qualcuno conferma? Puntare su professioni che non causino sbattimento è una delle manifestazioni del Quiet Quitting, fenomeno di cui abbiamo già parlato e che indica l'intenzione di lavorare senza infamia e senza lode, senza sbattersi oltre il dovuto, giusto per portare a casa lo stipendio.
A confermare ulteriormente questo panorama ci pensa un sondaggio globale di Cigna International, che ha rilevato come i lavoratori della Generazione Z siano i dipendenti più stressati. Il 91% (praticamente tutti) ha ammesso di sentirsi bollito, pienoh raso. Ora, come abbiamo scritto poco fa: da boomer può venire automatico rimbrottare le nuove generazioni. Ma quando un fenomeno è talmente ampio da diventare oggetto di studio, non possiamo che provare a comprendere le motivazioni che ci sono dietro. I ragazzi di oggi hanno vissuto - indirettamente - sulla propria pelle i sacrifici dei genitori, la crisi economica, e le frustrazioni di una vita dipendente dal lavoro, con poco spazio al privato. La pandemia ha dato un'accelerata al sentiment, amplificando il bisogno di libertà, di vita sociale e di felicità.
Vogliamo dargli torto?
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