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Prima di sbroccare come al solito, commentando cinicamente "Eh sì, avevamo proprio bisogno del manager della felicità gne gne gne", aspettate almeno di approfondire un minimo. Intro d'obbligo eh, perché lo sappiamo che certe novità ci mettono un po' ad essere digerite. E oggi, nella Giornata mondiale per la consapevolezza dello stress (si celebra every year il primo mercole di novembre) vogliamo piazzarvi un bel focus sulla combo ormai apparentemente invincibile lavoro-sbatti. Di argomenti in favore ne abbiamo quanti ne volete: solo pochi giorni fa vi abbiamo raccontato di quello che sembra essere un nuovo-vecchio fenomeno, The Great Gloom, cioè la grande tristezza. I lavoratori di oggi sono i più infelici che siano mai esistiti da quando siamo in grado di fare sondaggi a riguardo.

That's it.

Sicuramente la pandemia c'entra qualcosa in tutto questo malessere diffuso. Da quando molti di noi sono rimasti a casa - anche in smart working - si è cominciato a riscoprire il piacere del tempo libero, della libertà, le priorità si sono ribaltate e tornare in ufficio è stato - di conseguenza - un bel po' traumatico. Oddio, non è che chi se ne sta ancora in smart viva con eccessivo entusiasmo, anzi. Studi recentissimi (ancora una volta), ci dicono che chi lavora da casa si sente profondamente solo (soprattutto Gen Z e Senior) a causa della mancanza di vita sociale. Questi dati, uniti all'attenzione (emenomale) sempre crescente nei confronti della salute mentale e del benessere dei lavoratori, ha fatto piano piano emergere una nuova figura aziendale, adibita proprio alla serenità dei dipendenti. Si chiamano Chief Happiness Officer, e se vi sembra un'americanata è solo perché in effetti sono nati in the USA e as usual noi ci siamo accodati.

"Il Chief Happiness Officer non è una spalla su cui piangere o un confessore seriale, né uno special trainer che propina sessioni di yoga tutti i venerdì all’ora di pranzo - ci illumina Paola Baravalle, CHO e Marketing & Communication Evangelist - Il CHO è un manager che trasforma l'ambiente in cui si trova, alimentando il benessere suo e delle persone che con lui vivono ogni giorno. È un professionista che sa che la felicità non è solo un’emozione ma anche una competenza e che come tale si può apprendere ed allenare. Il CHO è la risposta evolutiva concreta al management giurassico".

Tutto molto figo, peccato solo essere in Italia. E in Italia - lo sappiamo - figure come questa nei primi tempi possono andare incontro ad un bel po' di pregiudizi. Quelli con cui abbiamo esordito questo pezzo. Baravalle ce lo conferma, sottolineando quanto gli ambienti di lavoro - in Italia - siano ancora giurassici e poco propensi alle novità. "Gli egosauri dominano a scapito degli esseri umani che cercano senso e realizzazione. Però esistono anche organizzazioni positive dove il noi vince sull’io e dove prima del fare e l’avere, viene l’essere e il benessere dell’individuo. Non sono molte, ma le aziende che scelgono la felicità guarda caso registrano crescite a doppia cifra e riducono tassi di abbandono, percentuali di malattie professionali e assenteismo. Sicuramente i CHO italiani, specie ancora rara (siamo 300 oggi in Italia) sfidano ogni giorno pregiudizi, convinzioni e luoghi comuni, ma hanno nella cassetta degli attrezzi evidenze, statistiche, studi e competenze capaci di scardinare tutte le posizioni preistoriche".

Il manager della felicità - chiamiamolo così dunque - nasce inevitabilmente per soccorrere i tantissimi che, negli ultimi anni, hanno cominciato a soffire il proprio lavoro, anche a causa (o grazie, a seconda dei punti di vista) dei cambiamenti che abbiamo sperimentato durante il lockdown. "Le persone oggi sono più consapevoli e non sono più disposte a rinunciare ai propri obiettivi personali in nome della carriera - ci spiega Cecilia Masserini, Head of HR e Chief Happiness Officer di Biogen Italia. "Gli stereotipi da anni '80 sono superati. Oggi la carriera non interessa più, se fare carriera significa fare un lavoro che non ci piace o che ci impone di rinunciare al nostro benessere. Trascorriamo al lavoro buona parte delle nostre giornate e per questo è importante che il tempo lavorativo sia fonte di soddisfazione e di realizzazione".

Vabbè, ma quindi, stringi stringi: cosa può fare il Chief Happiness Officer per i dipendenti di un'azienda? "Il CHO osserva e comprende il momento evolutivo esatto in cui si trova l’organizzazione - ci spiega Baravalle - sulla base di questo definisce la strategia di cambiamento più adatta. Concretamente 'mette le mani' dove serve, per innestare la felicità e farla diventare condizione necessaria per la sostenibilità del capitale sociale dell’azienda. Non esiste una formula universale, un cocktail che va bene per tutti… esistono strumenti e pratiche che, ben adattati alla realtà in cui ci si trova, riescono a trasformare processi e way of working per favorire la cooperazione, il progresso, l’innovazione e la crescita di persone e sistema. Un bravo CHO mixa perfettamente revisioni di processo, in ottica felicità, e pratiche di benessere che alimentano la chimica buona, quella che accende i neuroni e non li brucia". E quindi ecco che - se necessario - il manager della felicità può costruire team building e corsi di aggiornamento, organizzare gruppi di lavoro, percorsi formativi, può risolvere problemi e introdurre novità e cambiamenti benefici per dipendenti e azienda.

Alle aziende sgamarsi un minimo e guardare avanti - anche grazie al CHO - può servire eccome. Sono tanti gli studi che confermano quanto il benessere dei dipendenti vada di pari passo con la produttività. "Le aziende felici permettono alle persone di esprimere al massimo il loro potenziale e contribuiscono al loro benessere, con conseguenze positive anche al di fuori dell’azienda, in famiglia e in generale nelle comunità in cui viviamo" conferma Masserini. Una consapevolezza condivisa da Baravalle: "Si tratta assolutamente di vincere insieme e di vivere dimensioni organizzative sane, risolte, dove l’esercizio del potere non è l’unica via e dove i leader positivi favoriscono la diffusione di una cultura del lavoro che riporta al centro l’essere umano. Oltre ad avere tassi di produttività più alti, capacità di innovare di più e più velocemente, le aziende che scelgono la felicità ridefiniscono anche il loro ruolo sociale generando un impatto positivo per il benessere di comunità e pianeta".

Siete presi bene? Va' che volendo potete diventare pure voi CHO eh. Baravalle ci indica il sito ufficiale Chief Happiness Officer, "un percorso solido, pratico, fattuale, con una metodologia didattica innovativa. Per passare da modelli manageriali giurassici a modelli più evoluti, le organizzazioni hanno bisogno di riappropriarsi di competenze e strumenti capaci di generare coerenza tra cultura, processi, strategia e leadership e garantire una governance di benessere e business coerente e virtuosa". Conferma Masserini, diventata CHO proprio con il corso ufficiale 2BHappy. "Un percorso formativo che permette ai CHO di acquisire una 'cassetta degli attrezzi' da portare in azienda per lavorare al cambiamento".

Allora, ancora pregiudizi in merito?

 

 

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