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Non ci giriamo intorno, è meglio vuotare subito il sacco. Questo articolo parla di una terribile patologia che nonostante sia diffusissima rimane ancora un tabù, una particolare condizione che colpisce sia gli uomini che le donne e in particolare i Millennials, un particolare tipo di bias cognitivo (una distorsione che le persone attuano nelle valutazioni di fatti e avvenimenti) che coinvolge la percezione della propria youngness; detta in parole semplici, quella cosa che succede quando si fanno cose convinti al 100% (ma convintissimi eh, manco un'ombra di dubbio guarda) che sia ancora roba da giovani, il trend del momento, la nuova mania che appartiene solo ai giovani.
Naturalmente sto parlando dei tre cavalieri della gen-social-apocalyps, - il momento in cui una generazione è ampiamente fuori da qualsiasi radar che segnala giovinezza - ognuno latore di una delle tre principali tipologie di network disease: "avere Facebook", la seconda e più grave "andare su Facebook" e infine quella terminale (questa è terribile raga praticamente senza rimedio) "chiedere l’amicizia su Facebook", una mossa che ormai ha lo stesso valore sociale di un fax o di un SMS con scritto "TVB".
Avete presente quando la vostra bisnonna vi chiede di andare in edicola a comprarle il "giornaletto della TV" e voi, con un misto di incredulità e sgomento, pensate: "Ma esiste ancora? Ma chi caz*o lo compra nel 2025?". Ecco, per voi che usate Facebook ogni giorno, è la stessa identica cosa. Fatevi due domande. Siete malati? Sì. È grave? Molto. C’è una cura? Ni. Ma non disperate: è possibile diventare portatori sani di Facebook. Vediamo come.
Prevenire è meglio che curare, lo sappiamo tutti. Ma sappiamo anche che, quando qualcosa ci piace, ignoriamo i segnali d’allarme. Per questo, quando nostra bisnonna ci ha mandato l'amicizia su Facebook (probabilmente dopo aver letto un tutorial sul giornaletto della TV), non abbiamo reagito con la lucidità necessaria. Invece di fuggire in massa, bloccare, fingerci morti, che abbiamo fatto? L’abbiamo accettata. E da lì è stata la fine.
Prima una bisnonna, poi una prozia, poi il trisavolo, poi il cognato del cugino del prete, il vicino di casa, il collega, perfino il datore di lavoro. Facebook, che era nato come l’ultima frontiera della vita online e del broccolamento duro (la vera ragione per cui Mister Meta lo ha creato nel 2004, quando essere nerd era ancora uncool e non se lo filava nessuno), si è lentamente trasformato in una riserva protetta di boomer.
Non solo quelli di diritto anagrafico, ma anche quelli ad honorem: quelli che ogni giorno mettono like a meme di pagine nate quando l’Italia era ancora forte a calcio. Eh sì, raga, il 4 febbraio Facebook compie ventuno anni. E in tutto questo tempo, il mondo dei social si è ribaltato. Scrivere post oggi equivale a fermarsi a guardare un cantiere, mentre intorno a noi il mondo è passato dagli snap ai reels, dalle stories ai TikTok, e sicuramente a qualcos’altro di cui non sappiamo nulla. Perché? Perché siamo quelli che ogni giorno rischiano di iscriversi a gruppi del tipo "Quelli nati nel…". E no, non c’è via di scampo.
Tuttavia, a fronte del fatto che "contenuto virale" e "Facebook" ormai non possono più stare nella stessa frase, e incurante dei periodici annunci di morte che puntualmente si rivelano esagerati, il principe dei social network è ancora seduto comodamente sul Trono di Like. Con 3 miliardi di utenti mensili - circa il 60% del web - Facebook continua a essere la piattaforma dominante, mentre TikTok, nonostante l'hype e la narrazione da fenomeno inarrestabile, raggiunge a malapena i 2 miliardi. Insomma, game, set e match per Mark Z e il suo esercito di boomer.
Ma come ha fatto il pioniere del "mettere like" a rimanere sulla cresta del WiFi per due decenni? Semplice: applicando la prima legge del business: se non puoi battere un competitor, compralo. Prima ha messo le mani su Instagram, che lo stava surclassando senza pietà. Poi è toccato a WhatsApp, con un’acquisizione improvvisa e chirurgica (se non è scaltrezza questa). Infine, la mossa definitiva: sganciarsi dal nome Facebook, diventato sinonimo di reparto geriatrico dell’internet, e rinascere come Meta. Genio. Ma la lista delle realtà acquisite dal colosso dei social non finisce qui. Tra le operazioni più significative ci sono Oculus VR, la scommessa sulla realtà virtuale, e Giphy per mettere la sua firma pure sulle GIF, un colpo da maestro.
Così oggi Facebook si trova a vivere una doppia vita: da una parte è percepito come una sorta di Papà Castoro dei social network, dall’altra è ancora il re della savana digitale. Sei delle dieci app più scaricate lo scorso anno appartengono a Meta, e Facebook resta il secondo più grande venditore di pubblicità al mondo dopo Google, mentre il valore di mercato di Meta ha superato i mille miliardi di dollari. Numeri che dimostrano come, nonostante le critiche, le cause legali (ci sono anche quelle) e i tentativi della concorrenza di spodestarlo, il ragazzo di Menlo Park (sede di Meta) non sia affatto sul viale del tramonto. Certo, l’engagement su Facebook non è più quello dei tempi d’oro, le nuove generazioni lo snobbano in favore di TikTok e Twitch, ma nonostante tutto rimane ancora il numero uno e ci riesce proprio grazie alla sua debolezza, essere il più senior di tutti.
Infatti il suo algoritmo, affinato da anni di machine learning e analisi comportamentale, continua a offrire ai brand una piattaforma senza rivali per il marketing mirato, e gli inserzionisti, anche se meno entusiasti rispetto al passato, non possono permettersi di abbandonarlo. E poi c’è l’ecosistema: chiunque usi Instagram, WhatsApp o Messenger (sì, esiste ancora) è, volente o nolente, dentro l’universo Meta e questa cosa, inutile negarlo, ci rende tutti un po’ boomer.
Nel frattempo, Zuckerberg spinge sulla sua prossima grande scommessa: il Metaverso. Anche se il progetto sembra arrancare, l’investimento in Reality Labs, la divisione dedicata alla realtà virtuale, ha già bruciato miliardi di dollari. Ma il ragazzo che nei primi Duemila aveva creato un sito per votare le foto degli studenti di Harvard - acquisite, tra l’altro, senza permesso (eh sì, Facebook è nato così, alla faccia della privacy e del body positive) - non sembra avere alcuna intenzione di mollare. Perché, se c’è una lezione che Zuckerberg ha imparato in questi anni, è che il futuro dei social si può sempre riscrivere. E se non ci riesci, puoi sempre comprarlo.
E noi? Noi che ormai non pubblichiamo più nulla su Facebook, terrorizzati all’idea che l’unico commento possa essere uno sticker cuoricioso di qualche lontana cugina. Noi che su quelle pagine abbiamo visto tutta la storia familiare dei nostri compagni delle elementari, dal primo figlio all’acquisto della prima casa (sì, in passato si comprava casa, so che stentate a crederci). Noi che c’eravamo quando la cosa più virale sul web erano le pagine dai nomi assurdi (che tenerezza). Noi che facciamo adesso? Possiamo aprire TikTok, metterci davanti allo specchio a ballare, mostrare la nostra morning routine e rincorrere l’ultimo trend o challenge per diventare virali. Oppure possiamo arrenderci all’inevitabile scorrere del tempo, accettare che la novità - quando si parla di social network - ci interessa sempre meno, e, forti di questa consapevolezza, pubblicare finalmente su Facebook ’sta benedetta foto con la nonna. Tanto ormai, ha imparato anche lei cosa vuol dire essere taggata.
Autore: Davide Frigoli
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