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Ma tu… perché lavori? La motivazione è tutto, ma in troppi ancora non l’hanno capito

Secondo il report Global Human Capital Trends 2025 di Deloitte, il 32% degli intervistati lavora per vivere. E gli altri? Facciamo un check.

Allora imbruttiti, non raccontiamoci balle: oggi la domanda che fai conoscendo una persona non è più tanto “che lavoro fai?“, quanto “perché lo fai?“. Secondo il report Global Human Capital Trends 2025 di Deloitte, la motivazione è la vera moneta di scambio del mondo del lavoro moderno. E no, non basta più “tirare a campare”.

I numeri? Eccoli serviti:

32% lavora per vivere (cioè pagare l’affitto, il sushi del venerdì e Netflix)
25% lavora per “fare la differenza” (i salvatori del mondo, insomma)
18% lavora perché ama il proprio lavoro (questi sono rari come una corsia libera sulla Tangenziale alle 8)
13% lavora per la grana, quella vera
11% lavora per competizione, vincere, dominare (i CR7 dell’ufficio)

Il punto? Ognuno ha il suo motivo e questo influisce su quanto è gasato (o meno) nel fare il suo mestiere. Se vuoi che la gente non ti molli al primo colloquio o non si faccia venire la sindrome del “quiet quitting”, serve capirli, ‘sti benedetti motivi.

Talent shortage: una giungla

Trovare gente che sappia fare il suo e che ci stia anche volentieri è tipo cercare parcheggio sotto casa alle 20: impossibile. Le aziende oggi si sbattono non solo per assumere la persona giusta, ma anche per non perderla dopo due mesi.
La mancanza di talenti è un problema che va di pari passo con la mancanza di motivazione. Se non accendi il fuoco dentro al dipendente, quello si spegne come una candela Ikea a metà di una cena romantica.

Benvenuto un caz*o

Secondo Michael Page, il 71% degli italiani pensa di licenziarsi già il primo giorno. Non è uno scherzo. Solo 1 su 4 si sente davvero supportato all’inizio e quasi nessuno riceve un vero benvenuto. Risultato? Gente spaesata, motivazione che va a farsi benedire e via così, un altro CV in uscita. Il 46% vorrebbe conoscere il proprio capo prima di iniziare (giusto per capire se è più tipo “boss illuminato” o “incubo da email alle 23:30”), mentre il 32% vorrebbe un giro esplorativo in azienda. Non chiedono la luna, solo un minimo di coinvolgimento prima di buttarsi in una nuova avventura.

Onboarding: croce e delizia

Secondo Glassdoor, un onboarding fatto bene può aumentare l’engagement dell’82% e la produttività del 70. Ma c’è un però: se i manager stessi non sono formati (e il 41% dice di non aver ricevuto supporto), come fanno a motivare gli altri? Morale: il vero manager non è quello che distribuisce badge e biglietti da visita, ma quello che ascolta, ispira e accompagna le persone nei momenti che contano (tipo i primi giorni, o quando arrivano bambini, stress o cambi di ruolo).

Quindi…

Caro Big Boss, se vuoi che la gente resti, dia il massimo e non ti saluti con la fatidica “mail delle dimissioni” dopo tre settimane, devi capire cosa li motiva davvero. E no, non è sempre questione di soldi. Serve un approccio più umano, personalizzato e anche un po’ visionario. Mica il Porsche Cayenne.
Perché, alla fine, non esistono persone “non coinvolgibili” – solo aziende che non sanno coinvolgere.

Autrice: Daniela Faggion

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