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In Spagna la settimana corta è ufficiale: si lavora meno, si guadagna uguale

Il governo di Pedro Sánchez è pronto a tagliare l’orario di lavoro settimanale da 40 a 37,5 ore, mantenendo intatto lo stipendio. Merito di Yolanda Díaz.

Mentre qui da noi si litiga ancora per lo smart working il venerdì, in Spagna fanno sul serio: il governo guidato da Pedro Sánchez è pronto a tagliare l’orario di lavoro settimanale da 40 a 37,5 ore, mantenendo intatto lo stipendio.
Tradotto per i fan del cartellino: meno ore in ufficio, ma il bonifico rimane lo stesso.

La riforma, voluta fortemente dalla ministra del Lavoro Yolanda Díaz, è stata approvata dal Consiglio dei ministri spagnolo. L’obiettivo è chiaro e ambizioso: migliorare la qualità della vita dei lavoratori, dare un colpo di spugna al burnout di massa e far girare un po’ di più l’equilibrio vita-lavoro, che ormai è più sbilanciato di una sedia dell’Ikea montata male.

Settimana corta, da quando

Il progetto di legge toccherà circa 12 milioni di lavoratori, ridisegnando uno dei mattoni fondamentali del mondo del lavoro iberico. E se tutto va come previsto, la nuova settimana lavorativa da 37,5 ore sarà realtà dal 1° gennaio 2026, con una fase di transizione che partirà entro fine 2025.

Non è un colpo di testa improvvisato: il piano ha dietro l’appoggio dei principali sindacati spagnoli e, soprattutto, il consenso della gente. Secondo un sondaggio del 2024, il 68,1% degli spagnoli è favorevole alla riduzione dell’orario. La gente vuole più tempo per vivere, dormire, vedere gente e magari anche solo stare sul divano senza sentirsi in colpa.

Ma i datori dicono “¡espera un momento!”

Ovviamente, come ogni riforma seria, c’è anche il fronte dei contrari. Le associazioni datoriali storcono il naso, lamentando il solito rischio: costi più alti, meno competitività, e mazzate sulle piccole e medie imprese. Il mantra è quello classico: “ci deve pensare la contrattazione collettiva, non una legge calata dall’alto”.

Ma Díaz tira dritto. Già protagonista della stretta sui contratti a termine e della battaglia contro la precarietà, la ministra di Sumar non si fa intimidire. Per lei, non si tratta di lavorare meno, ma di lavorare meglio. E anche un po’ di più vivere, che male non fa.

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