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Il ghosting fa più male di un rifiuto, lo dice la Bicocca

Secondo uno studio dell'Università, chi sparisce senza spiegazioni fa peggio di chi rifiuta esplicitamente...
25 Novembre 2025

Una volta si diceva “farsi di nebbia”, adesso si dice ghosting (“fantasmarsi”) — ma il risultato è sempre lo stesso: qualcuno che cerchi evita i contatti, sparisce dalla tua vita e non si preoccupa nemmeno di spiegarti perché. E se la cosa è di per sé un’evidente scocciatura, adesso la scienza conferma che è anche più dolorosa di un rifiuto esplicito.

Secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il “ghosting” — cioè l’interrompere bruscamente una relazione amorosa, di amicizia o persino professionale sparendo nel nulla — fa più male del rifiuto. Non solo: il disagio che lascia dietro di sé dura più a lungo, come quella spiacevole sensazione che dà la doppia spunta grigia su Whatsapp: avrà visto il messaggio o lo ha solo ricevuto?

Cosa dice lo studio

Lo studio ha superato i confini dell’Università milanese ed è stato pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior. A quanto pare è il primo a misurare in tempo reale le reazioni psicologiche di chi subisce il trattamento “fantasma”. Gli psicologi milanesi hanno reclutato un gruppo di volontari, chiedendo loro di partecipare a brevi conversazioni quotidiane via chat con un partner (che in realtà era un collaboratore dello studio). Ogni giorno, i partecipanti compilavano un questionario sulle proprie emozioni. Poi, a metà esperimento, il colpo di scena: ad alcuni l’interlocutore ha improvvisamente smesso di rispondere — puff! — come nel più classico ghosting; ad altri, invece, ha comunicato un rifiuto esplicito (“guarda, non mi interessa continuare a parlare”). Un terzo gruppo ha invece proseguito la chat come se nulla fosse.

Risultato? Il silenzio privo di spiegazioni risultava più fastidioso: chi è stato ignorato ha mostrato livelli di disagio emotivo più intensi e più duraturi rispetto a chi ha ricevuto un “no” chiaro e diretto. Intendiamoci, il rifiuto esplicito non era piacevole, ma era un po’ come una puntura: dolore acuto, rapido e poi via, passa tutto…. Il ghosting, invece, era una ferita che non smetteva di tormentare.

Alessia Telari, ricercatrice del Dipartimento di Psicologia della Bicocca, va giù dritta: “Il ghosting mantiene le persone intrappolate in uno stato di incertezza”. In pratica, chi viene ghostato resta sospeso nel limbo del “forse mi scrive”, “magari ha perso il telefono”, “può darsi sia stato rapito dagli alieni”. E più il silenzio dura, più la fantasia fa danni.

Il problema, spiegano i ricercatori, è proprio l’assenza di una fine chiara: il cervello umano adora dare un senso alle cose, ma nel caso del ghosting non sa letteralmente che pesci pigliare… ehm, per dirla in psicologhese “non sa dove collocare quell’esperienza” e la persona “ghostata” continua a rimuginare, provando un mix di confusione, esclusione e senso di inadeguatezza. E su tutto questo una spolveratina di amarezza dovuta alla percezione di slealtà da parte di chi ghosta. Chi dice esplicitamente “non mi interessa continuare” dimostra coraggio, chi ghosta profuma di str****.

In fin dei conti, sparire non è solo una cattiva educazione digitale: è proprio una forma di crudeltà emotiva a bassa intensità, che lascia segni più profondi di quanto sembri. Va detto però che un po’ di sano realismo da parte di chi aspetta non guasterebbe: se non passa l’autobus, che fai? ti metti a dormire alla fermata?! Presente il detto: “Chi mi ama mi segua!”… Se non ti segue nemmeno nella conversazione, figurarsi se ti ama!

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