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Cammino senza meta tra le strade che mi hanno visto crescere, quando una frase su un muro cattura la mia attenzione: Milano, tu mi hai mai amato?
Poco dopo, per terra, vedo un foglio accartocciato. Istintivamente lo raccolgo. Che sia una pagina dal taccuino di un folle? Una calligrafia incerta riporta questa poesia:

dimenticar domani
me e milano
(è perché scrivo)

domeniche con blocco
del traffico emotivo
inspiro fotogrammi
di altri ieri
foto e grammi
i pompieri, superflui
se bruciasse il nostro
albero radici comprese
compresse
sotto cemento,
cantine e fogne umane.
Parlo del sottosuolo,
di me e del cielo
con egual calma
a metri quadri di blu
oggi che esploro
in bici la mia gabbia.
Che bruci la città,
aumenti la calura
tutto torni foresta
di erbacce pluviali
col Rio dei Navigli
solo fluire fluviale
panta rei e
pantegane

Dopo averla letta proseguo la passeggiata, riflettendo e riflettendomi nelle vetrine del centro. Forse le metropoli sono davvero trappole dello sviluppo che avrebbero voluto sostenere. Come pensare, senza un orizzonte in cui perdersi?
Al progresso basta luccicare. Tra i palazzi spuntano i grattacieli e la loro monumentale arroganza, espressione della bassezza di una società che necessita mezzi materiali per arrivare al cielo.

Quando penso a Milano mi viene in mente Cara città, la canzone di Alberto Dubito e i Disturbati dalla CUiete: questa è una serenata / urlata fino a sfrangiarmi le corde vocali / non sotto al balcone ma appoggiato al bancone / come la peggior bohème. Spesso mi ritrovo anche nelle parole di Giovanni Testori: Milano città / metà culla / metà bara.

Un giorno faremo pace, cara città, o forse mi vestirò di grigio anch’io per mimetizzarmi e scomparire tra le vite che inghiotti e non vomiti più. Devi avere un bel fegato per contenerci tutti e non rivoltarti mai.

Ho capito i cittadini e le città, d’altronde ci son nato. Ridurci ai minimi termini, ecco cosa facciamo, irreperibili agli altri e a noi stessi; le nostre persone, perse di vista. Anestesie totali e noi intontiti e apatici come nelle discoteche in cui ci chiudiamo per non sentirci. Eppure i sogni erano davvero ovunque fino a che tutto non è diventato un niente a cui aggrapparsi naufraghi, scalzati dalla nostra lunghissima adolescenza.

Ho compreso la fretta e l’individualismo, caratteri che mio malgrado riscontro anche in me, figlio della prostituta d’alta classe ch’è Milano, quando si dà a tutti e a nessuno. E non ha senso innamorarsi di lei, al massimo la si frequenta di notte come facevamo spesso, amando talmente il sole da volerlo aspettare ogni volta, accompagnato dall’inutilità di un’alba comunque migliore della vostra utilità; provando a scaldarci fino a scoppiare, come le stelle.

E vorremmo cambiarti, cara città, con la tenacia degli amanti di una donna distratta e autoreferenziale, che doveva anche essere bella, un tempo, prima dei lifting. E sbagliando perseveriamo, come tutti quelli in cerca dell’invece; continuiamo ad abitarti, certi di stanar l’ossigeno tra le polveri sottili dell’indifferenza.

Sopravviverti, amando i tuoi particolari, alcuni luoghi, certi parchi, certe persone belle con cui cospirare. Dobbiamo cambiare noi stessi e quindi il nostro ambiente, per transitività. Sorridere più spesso, suonando strumenti al posto dei clacson, aprendo il cuore fino a farlo scoppiare.

Finisco la passeggiata all’ombra del Duomo, tra le palme e le migliaia di turisti che non guardano la cattedrale ma le danno le spalle per i selfie. Un bambino insegue i piccioni, apro il taccuino e scrivo:

L’unica volta in cui ho stimato un piccione
è quando è entrato in classe e ha scatenato un delirio.
Mio padre racconta di un sardo alla casa dello studente
che attirava i piccioni nella sua stanza con le molliche
e poi li cucinava. Faceva bene.
Io i piccioni non li posso vedere
con quel colore da Milano
la pigrizia di quando volano via all’ultimo
e mi devo scansare io in Vespa.
Li detesto quando non si scansano
e li trovi sbudellati in strada.
Li odio perché hanno le ali
e vivono a Milano, come me
potrebbero il cielo, il mondo
e s’infrattano nelle grondaie
tubano e muovono la testa
sul ritmo della metro nei tunnel.
Un bambino li sta inseguendo
vedo l’umanità di piazza Duomo
al sabato pomeriggio, mi chiedo
cosa scriverebbe un piccione di noi.

Ho camminato in tutta la città, accompagnato da una bottiglia e da un fantasma. Scrivo questa, chiudo il taccuino e riparto.

L’ennesimo caffè amaro
puzza di futuro precotto
pasta a pasteur, abuso
di loretorica da verso libero
male, lima, rum e menta
portano venezia nel mio fegato
joint nei giardini e son babylon
passeggio a misura d’uomo
cairoli su tela, lanza di vivere
tùrati il naso, ai gioielli
preferisco la gioia di quando
ci addormentavamo insieme.
Sondrio o son desto?
Afforismi inutili, corvée alla musa
rubo una corvette a corvetto
e ti porto di mare. 

[Questo testo è di Paolo Cerruto, nato a Milano ventisette anni fa. Lavora nell’editoria da SEM e Agenzia X e spaccia poesia con il collettivo Tempi diVersi. Ha immaginato la nostra città sott’acqua, sta provando a riaprire un cinema chiuso nel quartier Casoretto, organizza passeggiate tra i monumenti invisibili o le cabine telefoniche in via d’estinzione. La poesie riportate in questo articolo sono state pubblicate in Poetically scorrect (Eretica, 2018), una raccolta che testimonia un rapporto irrisolto con una città, una generazione e un’epoca intera.]

Foto di copertina di Federico Epifanio

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