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Editorial
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È andata così: da un giorno all'altro mi sono accorta che il mondo intorno a me aveva smesso di parlare di pandemia e aveva iniziato a dissertare di Squid Game. "Capolavoro", "Cazzata", "Geniale", "Angosciante" e via di aggettivi. Ora, veloce recap per i pochissimi incolti che non sanno di cosa sto parlando: Squid Game è una serie tv sudcoreana che in tempo zero ha scatenato un entusiasmo globale. Tutti la guardano, tutti la adorano. Delle mode improvvise e travolgenti, però, cerco sempre di diffidare. Tipo, qualche anno fa tutti parlavano solo del libro Cinquanta sfumature di grigio, ma quando l'ho letto poco ci mancava che iniziassero a sanguinarmi gli occhi tanto faceva cagare. Quindi, prima di accodarmi alla platea di scimmiati di Squid Game, ho deciso di mettere in pausa la mia vita per un weekend e di fare binge watching su Netflix, sparandomi le nove puntate della serie sudcoreana una di seguito all'altra, in modo da farmi una mia personalissima opinione. Fattibile.

Da qui iniziano degli spoilerini, niente di assurdo ma se siete dei puristi e non volete sapere niente di niente, salutiamoci. Altrimenti andate avanti, ma tranqui che non vi toglierò il piacere di scoprire le robe clou della serie, tantomeno il finale. Per carità. Cominciamo. Il protagonista di Squid Game, Seong Gi-hun, mi ha fatto subito simpatia. Un pirlone fatto e finito, un cazzone vero. Un inetto infantile, uno capace di giurare su sua madre (santa donna) e dopo un secondo infrangere il giuramento. Un babbo pieno di debiti con il vizietto del gioco. La persona giusta, quindi, per essere abbordata da un misterioso tizio in giacca e cravatta che gli propone di partecipare ad un gioco in cui potrebbe vincere il premio finale di 34 milioni di euro. Figurati, Seong Gi-hun non se lo fa ripetere due volte.

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Il nostro anti eroe, dopo un viaggio super segreto, si ritrova in una specie di camerata insieme ad altri 455 disgraziati come lui, con tuta di ordinanza numerata. Un'immagine che mi ha subito richiamato alla mente un campo di concentramento, pensa te. E infatti si scopre ben presto che non si tratta di una sorta di Giochi senza frontiere in cui vince il migliore e poi finisce tutto a tarallucci e vino. Macché. I 456 devono affrontare una serie di sfide ispirate a giochi dell'infanzia (cosa che rende il tutto ancora più inquietante) e chi perde se la vede brutta brutta brutta. A rendere la situation più convincente (ai miei occhi) è stata la possibilità, data ai partecipanti, di tirarsi indietro una volta scoperto l'andazzo e di tornare alla loro patetica vita. Alla fine, però, il richiamo del cash e la disperazione sono stati più forti dell'istinto di sopravvivenza. 

Per molti di loro, insomma, non si capisce quale sia il vero inferno. Se il gioco o la vita. Non sono mica tutti coglioncelli come Seong Gi-hun. C'è la profuga nordcoreana che vuole vincere il premio per far emigrare i suoi famigliari sopravvissuti nella Corea del Sud. C'è l'anziano (personaggione) affetto da un tumore cerebrale, che decide di partecipare al Gioco piuttosto che aspettare di morire. C'è l'immigrato pakistano che decide di diventare parte del Gioco per provvedere alla sua famiglia, visto che il proprietario della fabbrica in cui lavorava non lo pagava da mesi. In qualche modo le tragedie di ciascuno ci toccano e non ci sembrano così lontane. Credo che uno dei pregi della serie sia stato quello di affrontare temi molto sentiti in Corea (e non solo) quali le disuguaglianze e la piaga dei debiti. La Corea del Sud, oggi, è lo Stato asiatico con la peggiore disparità di reddito. Se ci aggiungete una disoccupazione giovanile altissima ed un'altrettanta altissima pressione sociale e familiare, riuscirete a capire che le dinamiche rappresentate in Squid Game non sono poi così romanzate.

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Comunque, macinando puntata dietro puntata, mi convinco che Seong Gi-hun è uno dei protagonisti più interessanti che abbia mai visto. C'è qualcosa di comico nella sua parlata e nelle sue espressioni. Nonostante l'orrore del gioco, il Nostro cerca sempre di fare il compagnone, di rallegrare gli animi, dimostrando un inaspettato altruismo che mi fa tifare per lui. Ma la figata vera, al di là del protagonista, sta nella coralità dei personaggi. Ce ne vengono raccontati diversi, alcuni stronzi, alcuni intriganti, altri teneri. Iniziamo a conoscerli, a empatizzare, a odiarli. Anche per questo, ogni volta che comincia un nuovo gioco, mi parte un'ansia pazzesca: ho paura pure io di scoprire quale sarà la prossima sfida e inizio a temere per la sorte dei giocatori che ho imparato a conoscere. Che storia, mi piace.

Ci sono alcuni momenti un po' trash, ma pochi. Ce ne sono molti altri poetici, costruiti bene, coinvolgenti. Alcune scene mi catturano, tanto sono fighe. Tipo quando cala la notte e parte la mega rissa, svelata appena dalle luci intermittenti. Grandiosa. Figo anche il contrasto tra l'orrore e la purezza del gioco, con i sui colori pastello, le lucine, le musichette allegre. Mi aspetto che una situazione assurda come questa cambi le persone, le trasformi. E infatti non vengo delusa. I personaggi mutano. Alcuni si ammorbidiscono (Kang Sae-byeok) altri tirano fuori il loro peggio (Cho Sang-woo) altri maturano (Seong Gi-hun). Tutto giusto, tutto coerente. Interessanti, poi, i rapporti che si creano. Le amicizie messe a dura prova dalle spietate regole del gioco. Me lo sono chiesta, inevitabilmente: "Cosa farei io al posto loro?". Non sono riuscita a rispondere.

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A piacermi, di Squid Game, è che non si tratta solo di un gioco perverso. C'è un significato, per quanto partorito da una mente malata. L'uguaglianza. Tutti sono uguali. "Qui i giocatori possono sfidarsi alle stesse condizioni, in modo equo. Là fuori questa gente era piegata da disuguaglianze e discriminazione e noi diamo loro un'ultima possibilità di combattere lealmente e vincere" dice ad un certo punto un personaggio top. Così è, anche se bisogna ammettere che a volte la vittoria è solo una questione di culo, pure in Squid Game. 

Questa serie è una tragedia greca del 2021, è la parabola dell'eroe, anzi no, la nascita di un eroe. Infelice, come tutti i veri eroi. Perché alla fine di Squid Game capisci ancora una volta che i soldi non fanno la felicità. Soprattutto se sono troppi. Ma capisci anche che giocare è molto più divertente che stare a guardare, come dice chi sapete voi (chi ha visto il finale, sa). Io l'ho letto, tipo: essere protagonista della tua vita è meglio che lasciarla passare senza fare nulla, che era un po' il mood di Seong Gi-hun. 

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Squid Game mi ha richiamato alla mente un libro che ho letto tempo fa e che troneggia nella top ten dei mie book prefe di sempre: Battle Royale, dello scrittore giapponese Koushun Takami. La storia ha moltissime affinità con Squid Game, quindi se la serie Netflix vi è piaciuta sapete già cosa leggere per non perdere l'atmosfera. Il finale, appunto. No tranqui che non spoilero. In giro per il web ho letto commenti disparati. "Stupendo", "Deludente". Vabbè è sempre così, ci sta. Io, dopo questa full immersion, posso dirvi che Squid Game, per me, è una serie pazzesca. Con un finale meraviglioso. Sorprendente, poetico. Inaspettato come i capelli di Seong Gi-hun. Spero solo che mantengano alta l'asticella anche nel seguito (penso si farà visto il successo mondiale), non come la Casa di carta, che dopo la prima stagione è sprofondata in un mare di trasheria.

Io non posso fare altro che accodarmi all'esaltazione collettiva post Squid Game. Sicuro queste tute rosse e i tre simboli geometrici ci accompagneranno per un bel po', figuriamoci se non li vedremo in giro ad Halloween. Ci sta. Comunque, se non avete ancora visto la serie, recuperatela subito. Oh raga, se però non amate per nulla il genere horror (perché di questo si tratta) e la visione del sangue vi schifa, continuate con Bridgerton che l'è mei.

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