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Editorial
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I freelance lo sanno: cercare un posto per lavorare fuori casa è come trovare un posteggio sui Navigli il sabato sera. A Parigi o a Londra è abbastanza normale, ma qui in Italia è un vero sbattimento. Tra wi-fi deboli, la scarsità di prese elettriche, musica e rumori di fondo di tazzine (il mondo delle call sa!) e orari di apertura e chiusura impossibili, è davvero difficile scovare quell’angolino di bar dove ritagliarsi il proprio ufficétto improvvisato. E a volte, proprio quando hai trovato il tuo posto ideale, arriva puntuale il cameriere a domandarti: “Scusa, puoi spostarti di là?”. Già, perché agli occhi di molti proprietari quelli che scroccano il wi-fi del loro bar vengono (ancora) considerati clienti di serie b. Nonostante tu abbia già ordinato settemila caffè, pranzato lì, e invitato tre soci a lavorare con te, loro niente: ti chiederanno sempre di spostarti in un angolino buio vicino al bagno, di lasciare il tavolo ai clienti della pausa pranzo o nel peggiore dei casi di abbandonare il locale per fantomatiche prenotazioni dell’ultimo minuto. Certo, non dappertutto è così, ma molto spesso la realtà italiana è un po’ questa, nelle piccole e grandi città.

Eppure i freelance potrebbero essere una risorsa importante, soprattutto a Milano dove il fatturato di bar e ristoranti è calato del 50% rispetto al periodo pre-pandemia. E non è colpa della schiscetta meneghina. I motivi sono tanti: il Super-Green Pass, chi ha rinunciato alla colazione al bar per prudenza, ma soprattutto lo smartworking a casa, un fenomeno che ha indotto molti dipendenti a saltare il classico pranzo da consumare nei pressi dell’ufficio. E allora perché molti ristoratori non hanno cura dei freelance? Molto spesso è un fatto culturale. Se a Parigi è considerato normale sedersi a un tavolino e rimanerci le ore per studiare o per leggere un buon libro – magari davanti a un semplice caffè – qui da noi si è ancora visti con diffidenza o, peggio, si è visti come dei parassiti. Appena estrai il laptop, una serie di domande assillanti attraversano la mente del cameriere, del tipo: ma questo che fa, crede di essere a casa sua? Ci ha scambiati per un Internet Café? La prende un’altra spremuta o farà lo spilorcio per altre due ore?

Non neghiamolo, è anche la nostra forma mentis a fare la differenza. Manca un po’ la cultura dei café parisien, quei posti sacri in cui puoi sostare quanto vuoi senza dover rendere conto a nessuno. E se manca questo, figuriamoci la cultura del lavoro fuori casa. Prendiamo ad esempio il rito del caffè: a Milano il caffè va bevuto di fretta in piedi al bancone, agitando lo zucchero ancora prima di essere serviti. Tutti hanno l’ansia di tornare di corsa in ufficio per continuare a fatturare. E questo va benissimo, ma la domanda che dobbiamo porci è: e se uno fatturasse direttamente lì, seduto al bar? Certo, negli spazi di co-working nessuno ti guarderà strano, ma un freelance che lavora al bar è spesso visto come qualcuno che perde tempo o non ha abbastanza grana per permettersi una postazione condivisa. Quindi non solo è un cliente di serie b, ma pure un lavoratore di serie b. E in quanto lavoratore di serie b, uno che difficilmente lascerà mance generose.

Eh già. Il sogno americano del freelance che lavora da Starbucks e si dà un tono, tra una chiamata e un progettino, è crollato. Anche perché gli Starbucks stanno chiudendo. E quindi dove bisogna andare per lavorare in smart? Conviene andare sul sicuro e approfittare della solita lista di posticini, tipo le librerie indipendenti, quelle con il servizio bar. Peccato che gli spazi a Milano siano davvero pochi, e la maggior parte sia presa d’assalto dagli studenti. E quindi, che si fa? Si scrivono articoli come questo, nella speranza che sempre più bar inizino a vedere i freelance di buon occhio, magari restando aperti in orari in cui solitamente non c’è nessuno per monetizzare i tavoli che altrimenti rimarrebbero vuoti. Non dico che debbano srotolare il tappeto rosso, ma essere un po’ più ragionevoli, gentili e accoglienti, perché a Milano i freelance sono una buona fetta di mercato da soddisfare.

È un periodo difficile per tutti, inutile che ce la raccontiamo, ma se creiamo nuovi spazi di lavoro non convenzionali – e soprattutto se abbattiamo un po’ di stereotipi sul lavoro fluido – le cose possono tornare a ingranare nel verso giusto. E poi, si sa, quando il cliente accetta un preventivo al primo colpo è come vincere al Superenalotto: un po’ di festeggiamenti (aka le sciabolate di prosecco alle cinque del pomeriggio) vanno anche al bar che ha portato fortuna!

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