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Editorial
rider

Via, diciamolo subito: è inaccettabile che i lavoratori che svolgono il mestiere più antico del mondo debbano quotidianamente confrontarsi con scarsità di tutele, instabilità dei redditi e competizione aggressiva. Naturalmente stiamo parlando di chi ci porta la pizza e altre goloserie a casa, un business conosciuto già nell’impero Inca dove corridori chiamati chaski consegnavano al loro imperatore il pesce appena pescato nell'oceano Pacifico, anche se sua Maestà si trovava leggermente lontano dalla spiaggia, tipo sul Machu Picchu a 2.430 sul livello del mare.  

Si perché, non so se viene siete accorti, adesso consegnare le pizze, il fish burger o qualsiasi altra roba la fame chimica dei clienti reclami, non è più genuino come prima. Da sempre infatti il "pizza boy" è stato il lavoro degli studenti, si faceva part time, ci si beccava un bel po' di mance e spesso e volentieri pure la pizza gratis a fine turno. Soprattutto, questo lavoro ha sempre avuto una dimensione di prossimità, contribuendo a rafforzare quella che potremmo chiamare l’intimità dell’economia. Ma poi sono arrivate le app di consegna e tutto è cambiato, niente di male neh, vuoi che oggi non ci sia una qualsiasi attività che non approdi infine nel mondo delle piattaforme digitali? Ci sta, però bisogna andarci cauti perché la situazione, che i più studiati chiamano gig economy (economia dei lavoretti) sta sfuggendo un po' di mano.

I fast food di Milano sono circondati da nuvole di rider che sembra di stare al reparto centrale di smistamento delle Poste. Sul marciapiede uno sbarramento di bici, monopattini elettrici, zaini che manco Pegasus dei Cavalieri dello Zodiaco, tra fuori e dentro il locale un parapiglia di pacchi e sirene acustiche che sembra di stare al mercato ortofrutticolo alle sei del mattino. (Avete mai sentito il suono del terminale che avvisa il locale che è arrivata una consegna per i rider? In confronto il salva vita Beghelli è musica classica). Insomma ti passa la voglia di entrare a farti un panino. Tuttavia nulla di male, un locale ha deciso che preferisce orientarsi più al delivery che alla consumazione sul posto? E ci mancherebbe, ci sono grandi vantaggi dopotutto! Ma da grandi numeri (di consegne) derivano anche grandi responsabilità. 

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Responsabilità che sono in pochi quelli che decidono di accollarsi veramente. Si, perché l’economia del food delivery proviene sì dal mondo dei lavoretti degli studenti, ma con quel mondo ora non ha più nulla a che fare.

Prendiamo il caso di Milano che dopo la moda, il design, gli oratori (si quelli dove i nani giocano a pallone) è ora anche la città dei rider: è qui infatti che sono scattate le prime maxi indagini della procura della Repubblica volte a verificare il rispetto delle norme sulla salute e sulla sicurezza del lavoro. Ed è sempre a Milano che è stata emessa la prima sentenza, definita "storica" dagli addetti ai lavori, che ordina ai colossi delle piattaforme di versare all'Inps i contributi (mai pagati) per migliaia di rider, per un totale di alcune decine di milioni di euro. Ma infine chi sono i rider milanesi? Gli studenti le consegnano ancora le pizze o no? La risposta è che lo farebbero pure ma l'algoritmo li esclude. 

Una ricerca, realizzata dal Dipartimento di studi sociali e politici di Unimi, ha rilevato che i rider milanesi sono per il 39% italiani e il per 61% stranieri. Tuttavia queste percentuali, quando sono sbarcate le piattaforme (circa una decina di anni fa) erano inverse, e gli italiani erano di più perché c’erano, guarda te, gli studenti universitari! Ma dato che l'algoritmo smette di dare turni (o li limita) a chi fa poche ore, questi si sono piano piano dissolti. Con tanti saluti alla retorica del lavoretto! Insomma, dalla ricerca emerge chiaramente come quello dei rider sia un lavoro vero e proprio, e anche parecchio impegnativo: il 29% degli intervistati è impegnato per più di 50 ore alla settimana, il 25% tra le 40 e le 50. Non, solo una ricerca della Banca d’Italia ha rilevato che quasi il 20% dei rider in Italia è laureato e non da qualche mese ma a volte anche da anni, con alle spalle una carriera lavorativa di tutto rispetto che porta avanti parallelamente. Ma c’è anche il caso di chi non riesce a trovare un posto stabile nel suo campo professionale perché, come spesso accade, ha un curriculum troppo qualificante. E quindi giù a fare il rider.

A questo punto non bisogna essere delle cime per rendersi conto che, sulla bici dei lavoratori delle piattaforme, manca qualcosa di essenziale, i diritti. Infatti le multinazionali proprietarie delle app considerano i rider come autonomi a partita iva: paghe a cottimo, niente diritto alle ferie, alla malattia, alla maternità e assenza di tutele in caso di ingiusto licenziamento. Peccato che i rider autonomi non lo sono, sono infatti dipendenti (lo dice la parola stessa) dalla piattaforma che decide le tariffe e i bonus, monitora le performance dei riders per stabilire la frequenza individuale dei nuovi turni (più pedali più puoi lavorare insomma) e gestisce anche le mance. E l'indipendenza dove sarebbe?

Per fortuna, dopo qualche anno di ritardo, se lo sono chiesti anche al Consiglio europeo dove, nelle settimane scorse, si è discusso il testo della normativa per creare regole condivise per tutti i lavoratori della gig economy, 28 milioni di cittadini europei che diventeranno 43 milioni entro il 2025. Il risultato è un protocollo (Working Platform Directive) che aiuta a determinare il corretto status occupazionale delle persone che lavorano per le piattaforme digitali e stabilisce le prime norme UE sull’uso dell’intelligenza artificiale durante il lavoro. Insomma, per i rider sarà più semplice dimostrare che sono definiti "autonomi" in maniera fittizia dai giganti delle app di delivery e, quindi, esigere che gli siano riconosciute tutte le garanzie che spettano ai lavoratori dipendenti: un importante passo avanti in attesa del primo vero contratto collettivo nazionale per i lavoratori del settore della gig economy.

Fortunatamente, qualche caso virtuoso c'è. Tipo So.De, startup di delivery sociale a Milano che offre un servizio di food delivery sostenibile (ma anche di altri prodotti). Prima di tutto So.De garantisce ai suoi riders contratti equi, formazione adeguata e tutto l’equipaggiamento necessario. Poi sostiene le realtà locali, le piccole botteghe di quartiere e le imprese del territorio, insomma si sbatte per creare un circuito di consumo consapevole. In più per i dipendenti sono previsti percorsi di inclusione lavorativa, pensati per chi arriva da situazioni di emarginazione o fragilità. L'azienda collabora inoltre anche con iniziative di recupero e redistribuzione di cibo, ritirando prodotti invenduti presso la grande distribuzione e consegnando pacchi alimentari a famiglie in condizioni di fragilità.

Menomale dai, almeno loro.

 

 

 

Autore: Davide Frigoli

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