Com’è che si dice? Italia: pizza, spaghetti e mandolino? Ma il caffè non ce lo mettiamo? Certo, il caffè non è nato in Casa nostra ma in Etiopia. Eppure, dal 1570, grazie a un padovano che ne portò alcuni sacchi dall’Oriente, ha trovato luce a Venezia e poi ovunque in Italia, tanto da essere considerata un'eccellenza, esportata all’estero e bevuta come non ci fosse un domani da tutti noi. Sì ma cosa ci stiamo bevendo? Gambero Rosso ha pensato bene di farsi questa domanda, così de botto ma con senso, e la realtà è più amara dell’Espresso ristretto che ingurgitiamo il lunedì mattina al bar. Infatti, pare che da essere in cima alla classifica dei produttori top, gli italiani siano finiti per essere considerati i Jalisse del caffè, soprattutto dagli asiatici, che sembra se ne intendano parecchio.
Tutto questo declino si chiama comodato d’uso e finanziamenti e vede le torrefazioni travestite da banche che permettono ai bar di esistere ma "devi vendere il mio caffè". Potrebbe tranquillamente essere una semicit di Narcos alla plata o plomo, e invece è un meccanismo reale, che non lascia molto spazio alla qualità della materia prima, ma a dinamiche di scambio e sopravvivenza per gli esercenti. Quindi il barista spesso del caffè che vende conosce solo la marca e nient’altro, mentre dall’altra parte del bancone ci siamo noi che beviamo caffè amari con la schiuma pensando siano gourmet. In realtà quel sapore amaro non è corretto: è frutto di una tostatura scura che degrada tutti gli aromi, a cui si aggiunge un prodotto scadente ma conveniente. Motivo per cui la maggior parte delle persone ci aggiungono qualcosa per dolcificarlo, ci bevono l’acqua subito dopo, si addolciscono il palato con un cioccolatino o un biscotto burroso.
Certo, le eccellenze ci sono e i caffè buoni anche e, spoiler, non sono quelli che costano 4 euro perché in ogni caso si chiamerebbero truffa. Ma sono quelli di chi ha rischiato, ha perso tutto e ha investito nella qualità, come Matteo Trucillo che ha fondato la prima scuola di formazione sul "Caffè del Sud" e vende il 70% del suo caffè all’estero. Mentre quello che per gli italiani è considerato buono, è il caffè bruciato, bevuto rigorosamente senza zucchero e possibilmente in un sorso solo e ustionante perché fa figo così. Ora, stando a estimatori, esperti e giudici di caffè, la conclusione è che in media i caffè italiani siano amarissimi come questi giorni infiniti di pioggia, e che ogni giorno un barista svogliato è costretto a servire caffè di dubbia qualità a consumatori altrettanto svogliati.
That’s it. Prendiamone atto. Potrà invertirsi la rotta solo se chi beve inizierà a riconoscere la qualità e a richiederla, ma fino a quel giorno coglierei l’occasione per iniziare a guardare chi prende una bustina di zucchero e se la versa fino all’ultimo granello nella tazzina del caffè, non più come l’ultimo degli stronzi: che il caffè amaro sì è buono, ma non ci vivrei.
Autrice: Valeria Signorelli
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