
Il benessere mentale sul lavoro? Un diritto sacrosanto, ma la realtà è spesso un’altra storia. Negli ambienti aziendali di oggi, specialmente nelle grandi imprese, non si ha neanche il lusso di parlare con il capo. Il rapporto con i pezzi grossi è gestito da tutta una serie di figure di mezzo, i cosiddetti capi di reparto, che, con il loro bel carico di potere, hanno in mano la vita dei dipendenti. E quando uno di questi capi comincia a prendere di mira qualcuno, a chi può rivolgersi il malcapitato? Contro chi si può rivalere se il proprio capo ha deciso di farci la guerra? E come fare a risolvere questo incubo?
Una ricerca di Stimulus Italia, in collaborazione con l'Università di Bologna, quella di Palermo e il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, ha tastato il polso a 8.572 lavoratori di 59 aziende italiane, tra manager e professionisti, per capire che aria si respira in ufficio. Iniziamo con qualche dato abbastanza horror: il 57,15% dei lavoratori dichiara di essere praticamente sempre o spesso allo stremo delle forze.
La domanda è quella classica: "Il mio superiore mi stressa e sembra avermi preso di mira. Che posso fare?". La giurisprudenza ha già affrontato questa questione, e di esempi negli archivi ce ne sono un botto. L’ultima pronuncia viene dal Tribunale di Rimini (sentenza n. 203/2024) che, in casi simili, ha stabilito che il datore di lavoro può rispondere anche di mobbing.
Partiamo dalle basi: secondo l’art. 2087 del Codice Civile, il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei suoi dipendenti, fisica e psicologica. Questo significa prevenire qualsiasi tipo di danno o stress dannoso. È proprio per questo che, se un capo di reparto si comporta in modo da creare un ambiente di lavoro opprimente o offensivo, il datore di lavoro non può sbattersene. Se il datore sa (o dovrebbe sapere) che nell’ambiente di lavoro si vive sotto stress e non fa nulla, allora si becca il rischio di cause e risarcimenti.
Ma diamo un occhio alle due grandi bestie nere del lavoro: mobbing e straining. Il mobbing è un po' come una guerriglia programmata: comportamenti sistematici e prolungati che hanno come focus preciso quello di distruggere mentalmente il dipendente e di spingerlo ad andarsene. Gli elementi distintivi sono: azioni ripetute, a volte lecite se prese singolarmente, che però, messe insieme formano un’operazione di demolizione psicologica; danni fisici o psicologici che ne derivano; e, ultimo ma fondamentale, l’intenzione di danneggiare il dipendente.
Il fenomeno dello straining, invece, è un po’ differente: qui non si parla di strategie o di comportamenti a lungo termine, ma di azioni isolate che creano comunque un ambiente lavorativo tossico. Parliamo quindi di una azione di molestia unica ed isolata. Non serve dimostrare che ci sia dietro un piano per far vedere l’inferno al dipendente, basta che le condizioni di lavoro siano abbastanza da incubo da far crepare il benessere psicologico.
Di recente, il Tribunale di Rimini ha condannato un’azienda a risarcire un dipendente che, a seguito delle vessazioni del suo capo, si è ritrovato con un disturbo d’ansia clinicamente diagnosticato. Le minacce, le offese e perfino qualche volgarità erano sulla to-do list del giorno, e questo ha giustamente portato al riconoscimento di un risarcimento per danno.
In poche parole: il mobbing e lo straining sono più visibili di una volta? Sicuramente sì, per due motivi. Da un lato, la pandemia ha fatto riflettere tutti sul significato del lavoro, con nuove generazioni di lavoratori che ora danno più importanza al tempo libero e alla vita fuori dall’ufficio. Risultato? La gente è meno disposta a tollerare ambienti tossici. Dall’altro lato, però, i cambiamenti nel mondo del lavoro hanno aumentato la competizione e lo stress, portando sempre più spesso a situazioni da incubo. Alla fine della fiera, il datore di lavoro ha l’obbligo di creare e mantenere un ambiente sicuro. Quindi, parlatene sempre. Perché siete dalla parte della legge.
Autrice: Francesca Tortini
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