
Gli italiani, al lavoro, stanno messi male. A confermarci un'info che - onesti - già sapevamo - è adesso l'Osservatorio sul benessere psicologico nelle aziende italiane, realizzato da Serenis in collab con l’Università di Padova. Il campione? Oltre 1200 lavoratori, dai 18 ai 60 e passa. Il risultato?
Non benissimo.
Solo 2 su 10 stanno bene (più o meno)
I numeri parlano chiaro: solo il 17% dei lavoratori mostra un livello decente di benessere mentale. Il resto naviga nel malessere. Il 61% si sente psicologicamente provato, in netto aumento rispetto al già disastroso 49,4% del 2023. L’indice GHQ-12 (che misura il disagio) sale a 21,4 punti. Un anno fa era a 20,1. E anche la soddisfazione lavorativa cala: media 5,25 su 10, con picchi in negativo nelle aree commerciale, vendite (4,6) e produzione e logistica (4,8).
Le aziende non ci stanno proprio dietro
Attenzione: il problema non è che manchino i benefit o i gadget con il logo aziendale. Il problema è che, per il 57,8% dei lavoratori, le aziende mostrano scarso interesse per il benessere mentale. In crescita anche questo dato (era 52,9%).
Un altro dato interessante: più sei istruito, meno sei soddisfatto. Chi ha titoli di studio più elevati è mediamente più frustrato. Forse perché si aspetta di più, o forse perché ha capito tutto troppo in fretta.
Ma cosa migliora il benessere lavorativo? Autonomia, possibilità di dire la propria, e un ambiente dove non rischi il cazziatone al primo errore. E poi, valori aziendali chiari e coerenti con quelli personali. Non bastano slide e slogan: serve coerenza, anche nei fatti.
La settimana corta please
La proposta più apprezzata è la settimana corta: il 47,2% dei lavoratori accetterebbe di rinunciare fino al 10% della paga pur di lavorare quattro giorni a settimana. Anche con orari fissi e in presenza. Tradotto: la gente vuole respirare.
Anche lo smart working, se fatto bene, è considerato fondamentale. Non solo per genitori o pendolari: la flessibilità è una priorità, e chi lavora è disposto a sacrificare soldi per guadagnare tempo. Come sottolinea Martina Gianecchini, professoressa del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Padova, “la flessibilità non è solo un benefit simbolico: è diventata centrale nella qualità della vita lavorativa”.
Alla fine dei conti, il messaggio è semplice: lo stipendio serve, ma la salute mentale pure.
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