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Editorial
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Cara nebbia,

o forse preferisci che ti chiami scighera, in dialetto milanese? Scighera come quel nebbione pesante, denso e impenetrabile che inumidisce i cappotti, entra dentro nelle ossa, ostacola la vista e fa imprecare gli automobilisti.

Ti scrivo anche se da diversi anni te la tiri un po’. Non dire di no, ti fai vedere giusto quelle due o tre volte all’anno e scappi via subito, non appena si alza il sole. Giusto il tempo di qualche foto postata sui feed degli Igers più mattinieri e puff, come per magia, svanisci in pochi minuti.

Già, per quanto te la tiri ultimamente l’hashtag #foggydays non sarà mai primo in tendenze a Milano per più di qualche ora. Ok ok del mondo digitale di oggi non te ne frega nulla perché non sei bianca o nera, ma ami avvolgere il mondo con le tue mille sfumature di grigio. Come sosteneva qualcuno di cui ora non ricordo il nome, la nebbia di Milano è simpatica, affettuosa, cordiale e ti fascia tutto come una carezza. Chiunque abbia detto, scritto o anche solo pensato queste parole ha pienamente ragione. Proprio il tuo lato dolce e romantico mi ha da sempre incantato.

Ti confesso anche di aver parecchio goduto quando hai deciso di mostrarti al mondo il meno possibile. I Giargiana hanno smesso di dire che Milano è brutta perché c’è la nebbia, non devo più smadonnare per la ridottissima visibilità in circonvalla e forse quando non ci sei la morsa dell’inquinamento si fa sentire un po’ meno.

Nebbia mia la verità è che sono geloso, tremendamente possessivo. Mi piaceva prenderti a piccole dosi, preferibilmente nel weekend. Quanto era bello passeggiare in tua compagnia di domenica in una Milano quasi deserta. Il Duomo senza le guglie e la Madonnina, il Castello senza la torre e i Navigli… bhe i Navigli… che spettacolo non vedere la Ripa dall’Alzaia. Solo te a dominare la scena sopra all’acqua della Darsena. Tu mi avvolgevi e mi inseguivi, avresti voluto scendere con me anche nel mezzanino della metro di Porta Genova mentre tornavo a casa.

Se oggi ti scrivo è perché mi manchi. Quelle poche volte che sei apparsa nel 2020, non hai nemmeno potuto stamparmi sulle labbra i tuoi baci umidi né mi hai fatto raffreddare perché la bocca e il naso li ho ben riposti dentro una mascherina. Come dici? Ricordi che ai tuoi tempi la usavano solo i turisti giappo e li sfottevamo pure un po’. Eh cara scighera, il mondo è molto cambiato: per convincerci a usare una protezione non bastavano le polveri sottili, abbiamo dovuto fare la combo con un virus contagiosissimo a cui qualcuno ancora non crede. Hai ragione, siamo proprio dei pirla…

In realtà manchi a tutti noi. Ogni mattina in zona rossa ci svegliamo e sappiamo di dover correre, preferibilmente con un’autocertificazione già compilata in tasca. Già, ma correre verso dove e verso cosa? Il fatturato che piange, il drive in dei tamponi, la quarantena fiduciaria, i virologi da social?

In un mondo dove la positività è diventata un problema talvolta molto serio, c’è proprio bisogno di qualcosa di grigio che avvolga tutto. Qualcosa che non ci faccia vedere oltre il nostro naso, che ci faccia esclamare cazzovado in giro oggi che c’è la nebbia?! Soprattutto qualcosa che ci obblighi a essere vigili non sull’orizzonte, ma sul prossimo passo da compiere. In poche parole, per essere sul pezzo sempre e comunque abbiamo bisogno di te, nebbia.

Ti prego scighera, non rimanere giù nella Bassa. Risali il Naviglio Pavese e torna da noi, ostacolaci la vista, avvolgici nel tuo abbraccio e obbligaci a ritrovare la giusta via guardando soltanto dentro a noi stessi!

Per me Milano è la città della nebbia perché in autunno ho visto questa nebbia incredibilmente fitta, un tipo di nebbia che in Giappone non avevo mai visto, e l’ho trovata splendida, bellissima [cit. Banana Yoshimoto]

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