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Con la pandemia, e l'intensificarsi dello smart working, siamo bersagliati di immagini suggestive. "Lavorare in un borgo desolato", "Fatturare vista mare", "Video call con il capo da una baita in montagna". Tutto intrigante, ma sarà fattibile? Insomma, cosa resterà di questi anni di merda una volta passata (si spera) l'emergenza Covid? Secondo l'architetto torinese Carlo Ratti, intervistato dal Corriere, il south working e l'idea di un lavoro everywhere sono un po' delle cazzate (licenza poetica). "Le frontiere dello smart working non sono i borghi, ma gli uffici in città immersi nella natura e con spazi per la socialità creativa". 

L'archistar, che di spazi se ne intende, è convinto che il futuro del lavoro non sarà disegnato da uno smart working free da località esotiche, quanto piuttosto da un nuovo modello di office. Anche perché, secondo il Ratti, se mancasse il rapporto live con i colleghi sarebbe un bel problema. "I legami deboli, quelli che Mark Granovetter identifica come legami tra conoscenti casuali e colleghi, sono quelli necessari all’innovazione, perché ci costringono a incontrare il diverso, l’inaspettato e trovare forme di confronto". L'ufficio 4.0, secondo l'architetto, sarà ibrido e green. Tipo il CapitaSpring, il grattacielo di 280 metri progettato dal Ratti a Singapore insieme allo studio BIG. "Al suo centro, a decine di metri dal suolo, si può lavorare negli uffici immersi in un’oasi tropicale, con l’uso di tecnologie per il controllo ambientale. O gli uffici della Zambon a Milano con un sistema di illuminazione che consente di portare la luce naturale all’interno degli ambienti di lavoro e aree verdi a coltura idroponica". Green e Grana, ci piace.

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Quindi bello il borghetto eh, ma infattibile. "Credo di essere stato uno dei pochi l’anno passato a dire che quella dei borghi era una bufala. I borghi italiani sono bellissimi, ma non hanno l’attrattività di una grande città. Certo, con lo smart working potremmo trasferirci a Roccacanotta e andare a Milano solo due volte alla settimana. Tuttavia se ci piace mangiare giapponese, se vogliamo andare a teatro, al cinema d’essai o a un foam party, come faremo?". Eh, non ha mica tutti i torti l'architetto. Cioè ok il canto degli uccellini e le mura storiche, ma sai che rottura di balle? Per stimolare chi ha trascorso mesi lavorando da casa e incoraggiarlo a tornare in office, però, serve qualcosa di più.

Tipo rapporti umani. "Abbiamo bisogno di uffici intesi come spazi di socialità. Dovremo inevitabilmente privilegiare ambienti comuni, per incontri o riunioni più intimi o più ampi, a seconda dei casi specifici. Se desideriamo l’isolamento possiamo semplicemente lavorare da casa". La soluzione ibrida, insomma, sembra la più sensata per rispondere al bisogno di chi, dopo mesi di lavoro a distanza, fatica ad accettare di tornare a trascorrere la giornata in un ufficio. Anche perché, fra Grandi Dimissioni e burnout da rientro, appare chiaro come sia impossibile tornare alla vita di prima. Non senza dare di matto, echeccazzo.

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