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Editorial
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In questi giorni sto seguendo con interesse l'eco nato dal post di Blake Lively, che dopo aver annunciato la quarta gravidanza ha pubblicato una gallery di se stessa col pancione. Un modo per acquietare i paparazzi, dando loro un po' di materiale, ma anche per chiedere rispetto e privacy e ringraziare i media che evitano di pubblicare immagini delle figlie. A parte qualche evento mondano, infatti, l'attrice e il marito Ryan Reynolds hanno sempre evitato di mostrare le bambine sui social, e sicuramente non apprezzano che a farlo siano fotografi e gossippari vari. Pure io, lo ammetto, mi sento vicina al pensare di Blake e Ryan. Se fossi famosa, probabilmente agirei allo stesso modo. Non è un caso, in effetti, che da quando sono diventata mamma ho ridotto notevolmente la mia presenza sui social. Se prima ero piuttosto scimmiata con foto, palette, stories e compagnia bella, adesso fregacazzo. Ogni tanto sparo qualche foto del pargolo, con serenità. Ma evito di raccontare per filo e per segno ogni suo progresso, dentino, passetto, parolina e vomitino: a parte che non penso freghi a qualcuno, ma voglio evitare di opprimere il nano con un'esposizione che non ha mai richiesto. Certo, io non sono un'attrice di Hollywood e nemmeno un'influencer. Anzi, di tanto in tanto mi capita di guardare con simpatia i figli di Ferragnez e Co, lo ammetto. Da mamma, però, mi è capitato di riflettere sulla questione. È giusto che i personaggi noti costringano i figli a essere ripresi ogni due per tre solo perché a loro piace?

Esporre i propri figli sui social network è un fenomeno talmente diffuso fra vip e non vip da avere anche un nome, lo sharenting (dall’unione delle parole share, condividere, e parenting, essere genitori). Da anni i professionisti si interrogano sulle conseguenze dell'eccessiva condivisione dei nani, dalle questioni relative a privacy e diritti fino a quelle legate allo sviluppo psicologico dei bambini. Come sicuramente saprete se bazzicate i social, non è un argomento che riguarda solo le celebrities, ma pure la gente comune che, molto spesso, sfrutta la tenerezza e la curiosità di contenuti legati ai minori per acchiappare like e consensi. Personalmente, mi affido al buon vecchio saggio dei nostri nonni: Il troppo stroppia. Non apprezzo chi documenta ogni attimo di vita dell'ignaro figlio, ma nemmeno chi pubblica foto dei pargoli con una emoticon stampata sulla faccia come simbolo di privacy. Figa, e allora non pubblicare nemmeno l'immagine, no?

Ma tornando allo sharenting. Recentemente ha fatto discutere la scelta di Chiara Ferragni di pubblicare su Instagram un video tratto da una telecamera di sicurezza, installata nella camera da letto di Leone. Nel filmato si vedono madre e figlio impegnati in una tenera conversazione, col piccolo che dice cose molto dolci alla sua celebre mamma. Non so voi, ma guardando il video mi sono sentita un po' un'intrusa, e nello stesso tempo mi sono chiesta perché mai Chiara avesse sentito il bisogno di mostrare al mondo un momento così intimo e privato. Perché non riusciamo più - e qui generalizzo perché ovviamente la questione non riguarda sono la Ferry - a goderci il momento, il presente, ma dobbiamo mostrarlo per forza al mondo? Come se ormai ricevere l'approvazione e l'ammirazione degli altri fosse più importante di tutelare la sacralità delle nostre esperienze. Che poi, ovviamente, finché siamo solo noi e altri adulti consenzienti, stica. Ma quando parliamo di bambini il tutto si fa naturalmente più fumoso e complesso.

Visto che non vorrei mai essere assalita dalla sindrome della mamma pancina che critica le altre mamme ergendosi a supermamma, mi sono messa a spulciare un po' ricerche, analisi e approfondimenti di professionisti che ne sanno. Il Post ha raccolto diversi commenti in merito allo sharenting, riportando anche le parole di Leah Plunkett, docente alla Harvard Law School e alla University of New Hampshire Franklin Pierce School of Law, la quale ha parlato proprio della sovraesposizione dei bambini sui media digitali nel suo libro Sharenthood: Why We Should Think before We Talk about Our Kids Online. Il primo tema di cui discutere, secondo Plunkett, riguarda il consenso. Questi bambini sono esposti sui social senza averlo mai scelto, spinti magari dalla volontà dei genitori di monetizzare sulla loro immagine. Nessuno può sapere che valore avranno, in futuro, le foto e i video di quei nanetti che nel frattempo sono cresciuti e si affacciano al mondo della scuola, del lavoro e delle relazioni, ma iniziano anche a sviluppare il proprio senso di sé.

Negli USA ha fatto scalpore la storia della famiglia Martin. I due genitori avevano aperto un canale YouTube chiamato DaddyOFive diventato ben presto molto popolare, con 750mila persone al seguito. Nei video i Martin si divertivano a prendere in giro i cinque figli, provocandoli, rompendo i loro giocattoli o ideando scherzi sadici come quando decisero di rivelargli che erano stati adottati (non era vero ovviamente). Bè, alla fine i Martin furono processati, uno psicologo riscontrò in due dei loro figli "menomazioni osservabili, identificabili e sostanziali delle loro abilità mentali o psicologiche", e alla fine furono condannati a una pena di cinque anni di libertà vigilata e tutti i video del canale furono cancellati. Quanti altri Martin ci sono nel mondo che, anche inconsapevolmente, stanno creando disagi o addirittura traumi nei loro figli?


Non è un caso che anche Save the Children si stia spendendo sull'argomento. Come si legge sul sito ufficiale, tra le conseguenze dello sharenting ci sono anche le ripercussioni piscologiche, "quando bambini e bambine cominceranno a navigare autonomamente e dovranno fare i conti con l’essere (o l’essere stati) continuamente esposti pubblicamente (ad es. al giudizio degli altri) o dal ritrovare un’identità digitale costituita anche da immagini molto intime su cui non hanno effettuato scelte o consensi". Non solo. "I dati sensibili dei figli, come le passioni, lo sport amato, la scuola frequentata, le abitudini, costantemente narrati online, offrono materiale utile nei processi di avvicinamento e adescamento online". Ocio.

Aggiungo una riflessione: a me, personalmente, manda un po' in sbatti che il mio pargolo mi veda h24 con lo smartphone in mano. Sarà che ormai mi avvicino agli anta, ma inizio a fare gli stessi sospironi che i miei facevano con me e che i miei nonni facevano con i miei. Della serie "ai miei tempi si stava meglio". Quando ero piccola io, nei gloriosi anni '90, al massimo mi sparavo qualche oretta di Bim Bum Bam, ma sicuramente non passavo le giornate inebetita davanti a uno schermo. Ecco, mi piacerebbe che mio figlio giocasse il più possibile e che il più possibile sfruttasse la fantasia, la curiosità e l'immaginazione che in quanto bambino ha di default. Di sicuro la tecnologia farà parte della sua vita, a meno che non decida di mollare tutto e rifugiarmi in un villaggio mormone, cosa che al momento escludo, ma vorrei provare a rimandare il più possibile il momento in cui diventerà dipendente da smartphone e compagnia bella. E quindi mi chiedo: che tipo di esempio danno i genitori che passano più tempo a guardare uno schermo che il mondo intorno? Oh, noi ve lo avevamo già raccontato tempo fa: già solo la presenza di un cellulare nella stanza è in grado di farci diventare più scemi.

Vabbè raga, polpettone finito. Per riassumere: anche meno, no?

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